Le cifre del fenomeno Lego sono implacabili e ci schiacciano. È tutto troppo grande per poter essere concepito, rapportato alla quotidianità. Siccome contano i numeri e il resto è grossomodo rumore di fondo e, se va bene, poesia, i “mattoncini plasticosi” hanno e per sempre manterranno un posto aureo nei vari case history alla voce clamoroso successo planetario. Lego era già Lego prima dell’inconfondibile System, il sistema di interbloccaggio del mattoncino con i suoi tubi, che ci spalanca sotto gli occhi la vertigine della scelta infinita e della modularità sistemica (l’azienda è del ’32, i primi studi del brevetto arrivano dal 1947). Solo uno con nome da poeta, Ole Kirk Christiansen, poteva inventarsi un brand che riesce a essere esatto e micidiale. Nella crasi Lego compaiono due lemmi danesi, giocare e buono, che pur non avendo ancora nel mirino le future istruzioni, i numeri e i multipli, gli incastri a cuor leggere e la precisione mimetica del reale mettono già in evidenza l’intento del poeta. Un gioco, sì, ma buono, fatto bene, prodotto e svolto con grazia, misura e ordine. Tenete da parte questa prima definzione di Bene.
Copia imperfetta del modello originario. I Lego senza libretto
I primi set uscivano senza istruzioni: l’idea di un canone per la costruzione desiderata compare dopo, forse dopo le accorate richiesta di maggiore chiarezza. Dai primi mattoncini del debutto degli anni ’50, devono passare tre lustri per ritrovarsi in mano la preziosa, precisa, sentenziale guida. E prima? C’era la foto sulla scatola, e tanto bastava. Chi ha provato anche solo una volta ad abbandonare la comoda strada tracciata dalle istruzioni per avventurarsi nella replica, tramite l’euristica del trial and error, delle proposte alternative all’assemblaggio ufficiale, sa di cosa stiamo parlando.
Replicare quelle immagini era pressochè impossibile: il risultato era sempre una copia sghemba, sbilanciata, esangue, imperfetta. La metafisica delle Idee di Platone si poggia sui risultati della seconda Navigazione del Fedone: esiste un mondo intellegibile di cui il nostro, fisico e sensibile, è sbiadita fotocopia. Per Platone, esistono degli archetipi perfetti di tutte le cose, sensibili e intellegibili, passate, presenti e future, dell’universo che fungono da modello per la loro replica sensibile. Le chiama idee, prendendo a prestito un tempo verbale di orao (vedere) e indicando con quella parola non l’oggetto del pensiero ma la forma intrinseca di un oggetto stesso. Il mondo fisico è una semplice replica non tanto riuscita del vero mondo, quello delle idee. Le idee sono eterne, uniche e complete ma si moltiplica e si corrompono a contatto con la materia che è transeunte, mobile, mortale, imperfetta: l’unione di modello e materiale (mai del tutto spiegato da Platone) degrada il nostro orizzonte fisico. Costruire senza istruzioni racchiude un balbettio simile: di fronte al paradigma perfetto (la foto, da un solo punto di vista, peraltro) quello che si ottiene è una diminutio: ci troviamo in mano una copia maldestra di quella bella astronave che potenzialmente dovremmo ottenere, ma la colpa non è del modello.
Il traffico tra mondo e oltremondo e la loro relazione è affidato al Demiurgo. O, meglio, questa figura divina di artefice, modulatore (ma non creatore, materia e idee preesistono) è la metafora mitica che serve a Platone per spiegare nella sua ottica il rapporto tra copia e modello e l’algoritmo alla base del tutto. Il bambino che utilizza prima l’immagine e poi la spiegazione (anche con la guida il percorso mimetico non è sempre stato in salita) è un piccolo Demiurgo, un artefice da cameretta: se sarà buono, l’opera sarà buona (la migliore possibile, con i limiti della materia). Tutto ciò che può costruire sotto sembianze sensibili non è che un’approssimazione di tutto ciò che realmente è (le istruzioni, non la realtà, tutti i bambini sanno che quello non assomiglia per nulla al mondo reale). Tutto risponde a un’unità sovrasensibile (il modello) che solo l’anima (e non tutte le anime, ma quelle buone) può percepire. Giocare bene è guardare e affidarsi al modello (il libretto) per produrre, nel mondo fisico, qualcosa di bello. A Platone un gioco del genere sarebbe piaciuto? La risposta va in due direzioni: un gioco mimetico della realtà fenomenica sarebbe stato massimamente vituperato. Se però rientriamo in quella complessa trama di rimandi, allusioni e giochi drammaturgici (vedi la maschera di Socrate o il suo architettare i dialoghi così sottili e complicati), una qualunque narrazione ludica ma metaforica del suo pensiero di più complesso sarebbe stata molto ben accolta.
Non entri nessuno che non conosce la geometria
È Platone stesso nel Teeteto, dietro alla dramatis persona dell’amato maestro Socrate, a confermare una delle numerose voce dell’aneddotica del grande filosofo ateniese: sopra l’ingresso della scuola fondata in Atene nelle sale dedicate all’eroe Accademo campeggiava questa scritta, vagamente minacciosa, senza dubbio oscura.
A un certo punto della sua ricerca, Platone pensa sia venuto il momento di condividerne i risultati: allestisce una serie di conferenze sul Bene, dapprima molto affollate. Purtroppo, quando la platea si trovò ad ascoltare una serie di dissertazioni matematiche senza ritorno, nella totale assenza di rimandi alla morale o a qualche principio etico, iniziò la pioggia di defezioni. Il bene di cui parla Platone è l’ossatura del reale, l’accordo proporzionale e armonico di tutti gli elementi che, agli occhi di un’anima capace, appaiono appetibili. Ecco la seconda, complessa e spiazzante definizione di bene. Suprema misura di tutte le cose visibili e invisibili, il Bene ha una trama coglibile anche con i nostri sensi: la presenza del bene rende belle le cose che invera. Lo stesso amore platonico, lungi dall’essere unicamente intellettuale (è la componente principale, ma non l’unica e non esaustiva), è una scala tonale sul bello: i corpi belli, le anime belle, i ragionamenti belli che gli amati si possono fare, le idee che si possono sfiorare fino al Bene, sfavillante, estatico, supremo. Erotico è chi non ha ma cerca. Socrate, come i veri filosofi, non è bello ma cerca il bello, non è sapiente ma ama la sapienza (da qui la letteralità dell’etimo). Il bene è la radice di tutto ciò che è: non che tutto sia buono perché ha buoni sentimenti, ma tutto è buono perché risponde alla propria massimizzazione dell’esistenza, ovvero alla realizzazione suprema della propria virtù, del rispetto del suo logos. Sul modello Pitagorico, Platone connette la realtà ideale tutta in una matrice originaria di numeri metafisici, che sotto forma di frazioni esprimono il legame e la relazione di una singola idea con tutte le altre. Esistere è la traduzione concreta di questo rapporto (logos, appunto): esistere bene è la massima aspirazione di una realtà fisica. Essere rispettosi del numero, del logos intrinseco. La virtù è il meglio possibile, predicato sul bene, inteso come rapporto. Capite bene perché alla gente questo discorso non suonasse esattamente interessante. “Solo il meglio è abbastanza buono” è una frase che non stonerebbe nelle aule dell’Accademia ed è il commento lapidario del poeta Ole Kirk alla proposta di diminuire la qualità dei prodotti.