“Sovranismo” è una parola che sentiamo sempre più spesso, soprattutto in Italia. Come definito dall’enciclopedia Treccani, è la posizione politica di chi vuole liberare i governi nazionali da vincoli esterni, come trattati e organizzazioni internazionali. Secondo i sovranisti, in estrema sintesi, lo Stato deve poter esercitare il suo potere (essere “sovrano”) senza rispondere ad alcuna altra autorità superiore. Giornali e televisioni la usano quotidianamente come una sorta di “categoria pigliatutto” per mettere insieme partiti e leader politici all’apparenza eterogenei: dalla Lega, al governo in Ungheria e Polonia, al “Rassemblement National” di Marine Le Pen in Francia, passando per il presidente statunitense Donald Trump e per quello brasiliano Jair Bolsonaro (il tutto, però, avviene in Europa e in particolare in Italia: nel mondo anglosassone la parola “sovranismo” è praticamente sconosciuta e per riferirsi a questi leader e movimenti si usano termini come “nazionalisti”, “populisti”, “ultra conservatori” o, più semplicemente, “estrema destra”). Quanto il successo di Salvini, Le Pen e gli altri leader “sovranisti” sia anche un successo del “sovranismo” come ideologia rimane però molto dubbio. I leader polacchi del partito “Diritto e Giustizia”, per esempio, sembrano molto poco “sovranisti” nel loro sostegno alla NATO e nella loro volontà di continuare a ricevere ampi sussidi dall’Unione Europea. “Sovranismo” sembra inoltre una definizione riduttiva per leader come l’ungherese Viktor Orbàn, la cui visione di “democrazia illiberale” è molto più ampia e radicale della semplice difesa delle prerogative dello stato nazionale. Quello che i “sovranisti” sono riusciti a fare una volta arrivati al governo ha poco a che fare con il “sovranismo” e molto con i programmi tradizionali della destra: chiusura delle frontiere agli stranieri, soprattutto se poveri e poco istruiti, difesa dei valori tradizionali e religiosi e lotta al multiculturalismo. Nei casi peggiori, come in Polonia e Ungheria, i programmi e gli obiettivi sono quelli dell’estrema destra autoritaria: erosione dei diritti delle minoranze, dell’indipendenza del potere giudiziario e dell’autonomia dei media.
Il concetto di sovranità e di “amico-nemico” in Carl Schmitt
In un momento storico segnato dalla globalizzazione ma, allo stesso tempo, dal riemergere di nazionalismi e di una «cultura della paura» che indebolisce profondamente le istituzioni democratiche, si sta riaccendendo il dibattito accademico attorno al pensiero di Carl Schmitt (1888–1985), giurista e filosofo politico tedesco (ai più noto come Presidente dell’Unione dei giuristi Nazionalsocialisti). Le sue opere offrono dei paradigmi ermeneutici tanto radicali quanto utili per comprendere e, in taluni casi, criticare la contemporaneità. Alcuni concetti chiave del suo pensiero come quelli di “stato d’eccezione” e di “teologia politica”, ma anche appunto di “sovranità” e “Stato-nazionale” si mostrano profondamente attuali in un “politico” che è sempre più processo di chiusura e d’irrigidimento nei confronti dell’altro, del “nemico”, soventemente additato come pericolo per il benessere e la tenuta della società nazionale. Sembra infatti che un pensiero fertile sulle crisi democratiche dell’oggi possa nascere solo a partire da ciò che le è estremamente avverso: perciò Schmitt interessa nella misura in cui sviluppa un pensiero ostile al parlamentarismo, ostile al diritto internazionale, ed evidentemente estraneo a tutte le forme di decostruzione della sovranità. Di fronte agli effetti di una crescente mondializzazione e di un’elevata minaccia terroristica gli Stati si trovano sempre più nell’impossibilità di assicurare un adeguato livello di sicurezza di vita. Ciò porta a tentare di modificare la loro “offerta”, spostando la domanda su ambiti in cui, al contrario, essi possono mostrare di riuscire a proteggere i propri cittadini. Così lo Stato crea e promuove quelli che si possono definire, riprendendo Zygmunt Bauman, «bersagli sostitutivi», ovvero soggetti mostrati come pericoli, come minacce per la società, e nella lotta contro i quali esso trova la propria giustificazione, riaffermando così la propria sovranità. Ma ciò significa, in ultima analisi, che lo stato è costretto, per “auto-legittimarsi”, a produrre quel nemico a cui mostrerà poi di far guerra in nome della tutela nazionale. Scrive Schmitt nel suo capolavoro “Le categorie del politico”: “la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico e nemico. […] Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero […]”. Ciò che oggi indebolisce e mina le istituzioni democratiche è dunque proprio questa loro tentazione di conferirsi schmittianamente legittimità tramite la definizione di un nemico, di fronte al quale l’identità nazionale deve essere salvaguardata. In tal modo la pretesa “sicurezza del popolo” diventa un altro nome per la “sicurezza dello Stato”, e i governi democratici finiscono per prendere misure che, in nome della sicurezza, causano in realtà un sovrappiù d’insicurezza.
Si manifesta così in tutta la sua concretezza il concetto di “sovranità” schmittiano: “sovrano è colui che decide dello stato di eccezione”, ovvero quello stato che di distacca dalla regola e dalla normalità, sospendendo l’ordinamento giuridico al fine di mantenere l’unità e la coesione politica. Ad oggi però l’eccezione rischia di divenire la “regola”. Si sostituisce progressivamente allo “stato di diritto” il cosiddetto “security state”, lo “stato di (in)sicurezza”. Dalla paura, che ad ogni costo deve essere mantenuta, gli Stati traggono la loro legittimità: la sicurezza si mostra indispensabile non tanto all’assicurazione dell’ordine, quanto piuttosto al rafforzamento del controllo generalizzato e senza alcun limite sulla popolazione. “Vittime” di questo security state sono dunque, allo stesso tempo, i cittadini, costantemente monitorati e tenuti in una situazione psicologica di timore e d’insicurezza, e coloro che vengono indicati come altri, principalmente gli stranieri, bersagli di un razzismo istituzionale tramite cui lo stato cerca di ricostruire nell’immaginario collettivo il mito della “sovranità”, dando prova di una forza il più delle volte solo pretesa.
Un’ Europa dispotica
Per molti (e per lo stesso Schmitt) una società sempre più pluralistica e il nuovo carattere delle relazioni internazionali, dove sono più strette le interdipendenze, hanno fatto sì che lo stato si sia svuotato dei suoi poteri. Il rafforzarsi di comunità sovranazionali avrebbe fortemente limitato la sovranità degli stati membri. Parlare di globalizzazione di tutti i settori, dalla politica all’economia, apre il problema della sopravvivenza della sovranità. L’Europa unita che da 70 anni è strumento per la tutela della pace internazionale, è oggi per molti il volto di un nuovo dispotico Leviatano. Sulla cresta dell’onda troviamo così il governo gialloverde, capace di scardinare lo schema destra-sinistra, accomunandone i populismi, verso un orizzonte che li vede uniti sotto un minimo comune denominatore: l’impulso sovranista. Che per molti non è poi affatto minimo: c’è chi ci vede una nuova ideologia, un senso comune portatore di una nuova epoca, che possa sostituire quello che veniva considerato liberalismo decaduto e marcio. Così alle imminenti elezioni europee ci si aspetta un’affermazione importante, se non addirittura una vittoria, di questi partiti e movimenti cosiddetti “sovranisti”, che potrebbero riunirsi in un’unica lista e raccogliere un numero di consensi sufficiente per diventare determinanti nella formazione della prossima maggioranza al Parlamento europeo, e quindi influire sulla composizione della prossima Commissione. Ma se davvero dovesse nascere una coalizione “sovranista” sembra improbabile che a tenerli uniti sarà una vaga ideologia sul cui esatto significato nemmeno tutti appaiono d’accordo.
Tommaso Ropelato