Liberismo e hamburger: la fine della cultura occidentale

L’uomo europeo del XXI secolo è un essere fondamentalmente cinico e nichilista, non crede in sé stesso, esorcizza il proprio vuoto esistenziale dedicandosi all’edonismo e alle parole d’ordine del liberismo: produci, consuma, crepa.

Se oggi doveste scegliere alcune parole d’ordine per descrivere l’Europa, quali utilizzereste? Un uomo vissuto fino al secolo scorso ne avrebbe utilizzate diverse: democrazia, cristianesimo, Illuminismo, Rivoluzione Francese, Mozart, Beethoven, libertà. Nello scenario odierno, l’estremizzazione nel processo di virtualizzazione dell’intrattenimento, unito alle filosofie economiche di stampo consumistico e liberista, ha portato le nuove generazioni all’alienazione rispetto all’approccio culturale tradizionale. Dunque, risulterebbe molto difficile, al giorno d’oggi, stabilire dei parametri che identifichino il nostro modo di sentirci “fieramente” europei e, in seguito, occidentali. Numerose tradizioni locali e il folklore stanno lasciando spazio a una “tendenza” che non ha a che vedere con la cultura, le festività e le credenze. Si tratta per lo più di un atteggiamento, una mentalità che permea ormai il mondo dell’intrattenimento, annidandosi anche negli spazi finora appartenuti all’intellettualità: pensiero, riflessione, creatività.

 

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Sulla base del pensiero della Scuola di Francoforte, quanto è stata determinante l’influenza dei mass media sul processo di alienazione culturale dell’Europa?

Un mercato senza regole (frutto del liberismo) ha portato la macchina produttiva a confondere la passione artistica con la produzione dei “beni”. Max Horkheimer e Theodor Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, parlano di un concetto molto preciso, ovvero, l’industria culturale. Secondo i due sociologi marxisti, la complessità del capitalismo svilisce sempre di più la dialettica tra cultura e società. La soppressione di questo rapporto continuo e virtuoso avviene a causa dell’ “industria” culturale, ovvero una fabbrica del consenso che ha annientato la coscienza critica, elemento di forza della cultura. Tutto ciò impedirebbe la nascita di una forza di contestazione capace di mettere in discussione il sistema, con il risultato di produrre conformismo, obbedienza e assuefazione al consumo. Questa realtà produttiva è definita “industria” poiché rispondente a esigenze legate al mercato di massa, dunque è organizzata secondo criteri di distribuzione aziendale, senza che vi sia implicata una progettazione di tipo logico, razionale e creativo. L’unica creatività utilizzata nell’ “industria culturale” è quella dell’illusione: far apparire un prodotto non nella sua vera essenza, ma sotto le mentite spoglie di un’opera d’arte. In breve, l’industria culturale non è un prodotto della tecnologia o dei media, ma uno strumento del capitalismo, volto a creare i consumatori di domani. In un contesto come quello odierno, la Dialettica dell’Illuminismo si presenta più attuale che mai. Il rapporto virtuoso tra cultura e società è poverissimo, mentre l’industria culturale, grazie alla deregolamentazione del mercato attuata dal liberismo, si impone senza freni e annienta quotidianamente gli ambienti dove la cultura è disinteressata, no profit, o addirittura anti-profit. Il concetto di “cultura” è sempre più associato a quello dell’intrattenimento semplice (non intellettuale, ma estetico e musicale nella fattispecie), dove gli artisti sono spesso costretti a rinunciare alla propria identità per assurgere a modelli di imitazione, in cambio di grandi profitti generosamente offerti dalle grandi case discografiche. Dunque, anche i messaggi trasmessi da eventuali canzoni risulteranno sempre i medesimi: l’importanza del denaro, l’essere vincenti nella vita, perfetti nell’apparenza, trasgredire per omologazione, non per anti-conformismo. La trasgressione, inizialmente un’arma contro il sistema, è divenuta uno strumento di consenso, in linea con ciò che Marx ha affermato nel Manifesto. Secondo quest’ultimo, infatti, la borghesia (che oggi potremmo identificare con la classe dirigente e le élites finanziarie e multinazionali) per regnare cambia continuamente gli strumenti di dominio. Ribellarsi, insomma, è lecito, purché si continui a consumare. Per la serie: “vuoi spaccare la vetrina di un negozio? Ci pensiamo noi. Il Mercato ti fornirà il giusto abbigliamento per sembrare un vero ribelle e attaccare come un vero rivoluzionario. Anche la mazza che userai sarà nostra”. Oramai il ribellismo di stampo politico è stato ampiamente assorbito dalla società e dall’edonismo estetico, tant’è che molti “pseudo-rivoluzionari” vestono le firme contro cui combattono. Ciò che rappresenta una minaccia economica, politica e culturale viene automaticamente spettacolarizzato, assimilato, sminuito o ridicolizzato, al fine di un ridimensionamento mediatico e con l’obiettivo di garantire l’innocuità di un soggetto sociale e politico. La logica dell’ “anti-qualcosa” non funziona più al giorno d’oggi, dove il nemico è invisibile ma tangibile nel medesimo tempo. Occorre rielaborare gli strumenti del vero dissenso.

 

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Quali potrebbero essere le conseguenze del modello economico vigente?

Seguendo questo processo di standardizzazione della cultura, tra meno di cinquant’anni ogni cittadino del mondo si differenzierà dall’altro soltanto per questioni di etnia: non vi sarà più un’eredità culturale eterogenea da difendere e condividere con una diversità (inesistente). Hamburger e patatine potrebbero diventare il cibo base di ogni cittadino del mondo omologato e globalizzato. Si potrà parlare di Stati Uniti del Globo, un’estensione legalizzata della cultura nord-americana. Tutti avranno i medesimi passatempi, vestiranno nella medesima maniera e con gli stessi brands, le librerie e le associazioni chiuderanno per lasciare spazio a supermercati, palestre e centri di bellezza. Ci trasformeremo nell’homo consumens profetizzato da Bauman. Ciò che è a rischio sono tutti i luoghi di aggregazione culturale e sociale che non guardano al profitto e all’edonismo: le “palestre” dell’anima. Già le nuove generazioni sono molto più insensibili ai principi di socializzazione e condivisione delle idee. Una comunità che non cresce e matura attraverso l’interazione sociale, non può evolversi democraticamente, culturalmente ed economicamente.

Di fatto, una società in cui la cultura venga a scemare risente di una condizione innegabile: il declino. Nell’opera “Il tramonto dell’Occidente”, lo scrittore e filosofo Oswald Spengler afferma che le civiltà non seguono una crescita progressiva (tipica della visione illuminista), bensì subiscono il processo ciclico e naturale di ogni società esistita sulla terra (nascita-apogeo-declino). Senza sfociare in scenari apocalittici, le congetture finora elencate risultano abbastanza realiste, se pensiamo alle conseguenze odierne, visibili agli occhi dei più.

Esiste una possibilità di rinascita della civiltà europea (e occidentale)?

Tutto dipenderà dalla capacità individuale dell’uomo d’Occidente di riscoprire sé stesso e di resistere al coinvolgimento consumistico. Un approccio critico ai consumi dovrebbe costituire il principio di un’educazione corretta per l’uomo di domani. Se nei prossimi anni saremo in grado di sviluppare dei “vaccini” morali contro il morbo dell’ “industria culturale”, allora potremo riconoscere di aver saputo conciliare intrattenimento e consapevolezza. Se le istituzioni e le innumerevoli organizzazioni culturali saranno sufficientemente capaci nella diffusione di attività diversificate e aggregative (intellettualità, tradizioni, folklore, eredità  culturale europea e regionale), forse potremo opporre resistenza a un modello di globalizzazione e omologazione totalizzante. Ogni comunità in Occidente dovrà costituire un baluardo di democrazia e aggregazione, affinché non si perda la vera essenza dell’uomo e l’identità culturale europea.

 

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