Rispetto al protagonista di Wilde, i politici hanno per la loro immagine un’ossessione uguale e contraria: nelle foto per le campagne elettorali sembrano sempre più giovani e belli.
I was 21 years when I wrote this song / I’m 22 now but it won’t be for long / Time hurries on / And the leaves that are green turn to brown
Recitava così una canzone del duo Folk Simon & Garfunkel dal titolo Leaves That Are Green (1966) che insisteva sull’inesorabile scorrere del tempo e sul fatto che nulla è destinato a durare in eterno. Che le verdi foglie primaverili diventeranno marroni in autunno. Un’immagine questa che ha a che fare con quell’alternarsi delle stagioni che tutto/i miete, indipendentemente da chi siamo o cosa facciamo per tirare avanti e sopravvivere. Il tifoso sfegatato le chiama stagioni calcistiche, la ricca ereditiera stagioni della moda, mentre tutti quanti condividono le stagioni solari. Eppure c’è qualcuno che vuol convincersi ancora e ancora che le stagioni che pure lo riguardano, quelle politiche, non intacchino il suo aspetto o la sua vita. Qualcuno che vuol sentirsi un po’ come quel Rabbino di Slevin – Patto criminale (Paul McGuian – 2006) che diceva: “La mia erba è sempre verde”. Qualcuno che, a voler farla breve, spera di poter nascondere in soffitta il proprio aspetto reale raccontando al mondo una gigantesca bugia: che lui non invecchia come tutti gli altri, non patisce lo scorrere del tempo come gli altri, e che forse non ha persino il ‘buco del culo’ come tutti gli altri – come voleva far passare la versione satirica di Kim Jong-un in The Interview (2014) di Evan Goldberg e Seth Rogen. Questo qualcuno è il politico di professione e queste sono le motivazioni che lo guidano.
Il curioso caso di Giorgia Meloni
Ogni anno che passa Giorgia Meloni si fa sempre più bella. Non so come faccia quella donna, quale strano elisir di lunga vita si sia fatta preparare dal druido di quartiere, o quante volte abbia letto il Faust di Goethe per ottenere i favori del diavolo. Una cosa è certa. Quello cui stiamo assistendo ormai da lungo tempo è un vero e proprio remake del film di David Fincher Il curioso caso di Benjamin Button (2008), con la Meloni che ringiovanisce a ogni nuova campagna elettorale. Eppure questo remake ha un che di ripetitivo, forse dovuto al fatto che laddove Fincher aveva scritturato due grandi attori, Cate Blanchett e Brad Pitt, per impersonare rispettivamente il tipico e atipico progredire dell’invecchiamento, qui la Meloni la fa da padrona in entrambi i ruoli. E soprattutto mentre nella già citata pellicola, fra i due nasceva una storia d’amore, lo stesso non si può dire per la deputata di Fratelli d’Italia. Esistono due Giorgia Meloni, e una non sopporta l’altra. O meglio, come in ogni rapporto travagliato che si rispetti, l’una scarica sull’altra delle frustrazioni che sono solo nella sua testa.
Da un lato abbiamo la vera Giorgia Meloni, nata a Roma il 15 Gennaio 1977, che ha da poco superato la soglia dei quarant’anni. Dall’altro quella che incontriamo ogni giorno quando attraversiamo la strada, quando apriamo i social, poco ci manca anche quando andiamo a pisciare nei cessi pubblici – e non mi riferisco al fatto che, almeno per noi maschi, lei entri di persona nel bagno sbagliato. Mi riferisco alla versione di lei che vediamo sui cartelloni a ogni nuova elezione, non ultima quella per il Consiglio Europeo tenutasi Domenica scorsa. Un’immagine che inspiegabilmente, invece di star dietro alla sua controparte quarantenne, non solo non invecchia, ma anzi ringiovanisce ogni volta di più. Possiamo lasciare agli amanti della fantascienza la questione su quale sia la Meloni reale e quale quella illusoria, concentrandoci piuttosto sul perché si sia diffusa una moda della quale quest’ultima costituisce solo un caso limite, e da cui non sono esenti molti altri politici, indipendentemente dal loro colore politico.
L’Universo Photoshop
Nell’antica Grecia, si pensava che i due grandi valori di buono e bello (kalon k’agathon) dovessero andare per forza sotto braccio. Che le persone brutte esteticamente fossero anche brutte moralmente. Poi arrivò Socrate che, pur considerato storicamente uno dei più brutti fra i filosofi, smise di far valere questo rapporto. Tanto che Platone, nel Simposio, farà pronunciare ad Alcibiade un Elogio di Socrate nel quale questi viene comparato alle Statuette di Sileno, sgraziate all’esterno ma che dentro contengono l’immagine della divinità. Eppure, col passare del tempo, sembra che si sia scordato questo insegnamento, in Grecia più che mai. Partecipate a una qualunque discussione politica – ma anche conviviale – su questa o quella persona, e fra i primi giudizi profferiti da un greco non sentirete dire che gli sembra onesta o in grado di cambiare le cose, ma piuttosto le parole “polì sympathitikì fisiognomìa” – una fisionomia molto simpatica – intendendo di fatto che la bontà di un politico passa in larga parte dal grado di simpatia trasmesso dal suo volto. Quasi che le teorie fisiognomiche, ormai completamente superate, del padre della criminologia Cesare Lombroso, secondo il quale v’era una corrispondenza fra tipologia di crimini commessi e fisionomia del criminale, fossero tornate in auge.
Un atteggiamento che in Grecia può risultare estremizzato, è riscontrabile però in molti altri Paesi del mondo. E non solo in ambito politico. E’ tutto un fuggi fuggi nella dimensione del solo apparire, del voler primeggiare nel sembrare più avvenenti. Aveva ragione l’Edward Norton di Fight Club (1999), altro film di David Fincher, a dire che “quando l’esplorazione nello spazio s’intensificherà, saranno le società a dare il nome a tutto: la sfera stellare IBM, la galassia Microsoft, il pianeta Sturbucks”. Perché quello in cui viviamo è senz’altro l’Universo Photoshop. Di questa spettacolarizzazione delle figure politiche, di cui ha scritto e continua a scrivere da alcuni anni una gremita fucina di filosofi politici, è responsabile in larga parte lo svuotamento delle sezioni in favore dell’uso dei grandi mezzi di comunicazione come televisione e network. Mondi nei quali a contare è la presenza scenica dei candidati, la loro capacità di bucare lo schermo. Cosa che li porta, nei casi più estremi, ora a farsi fare interventi milionari per il trapianto di capelli e per combattere la disfunzione erettile – a buon intenditor poche parole – ora, per chi non possiede un impero mediatico per pagarseli, a nascondere il proprio aspetto reale in soffitta, lontano da occhi indiscreti.
Compravendita
Un’immagine questa tutt’altro che casuale, e che anzi ricorda le vicende narrate ne Il ritratto di Dorian Gray, pubblicato da Oscar Wilde nel 1890. Il romanzo, ambientato in epoca vittoriana, narra della vita di Dorian, un bellissimo giovane votato al più sfrenato edonismo che, resosi conto del potere scaturente dalla sua bellezza e deciso a non invecchiare mai, stipula un patto con il diavolo: lui resterà sempre giovane, mentre il ritratto che l’amico pittore ha realizzato invecchierà al posto suo, assorbendo su di sé tutte le malvagità e nefandezze di cui si macchierà l’anima di Dorian.
Chiunque noterà che il parallelismo che qui si vuol creare fra il protagonista di Wilde e il politicante di turno procede in realtà in senso inverso, con il secondo che vede la propria immagine ringiovanire e il proprio corpo avvizzire più che mai – visto lo stress derivante dall’assunzione di una carica politica, che pesa quanto gli anni di un cane. Eppure resta il reciproco desiderio di creare una discrasia fra immagine reale e illusoria, come resta la condivisione di una formula cui Wilde conferisce quasi il valore di aforisma: “Ritengo sia meglio essere belli che essere buoni”. L’unica differenza rispetto alla finzione letteraria è che il politico si trova costretto a invertire il gioco di Dorian. E deve farlo perché purtroppo non ha un diavolo al quale vendere la propria anima. O forse perché, in fondo, vale per lui la regola fondamentale del commercio. Che non si può essere venditori e compratori al tempo stesso.
Carlo Giuliano