Essere dotati di un “patentino civico” per essere ammessi nelle cabine elettorali: questa è l’idea nata tra i banchi del liceo scientifico Enrico Fermi di Milano per sensibilizzare i cittadini sulla conoscenza della Costituzione italiana, in vista dell’imminente appuntamento con il voto europeo. Progetto che gli studenti vorrebbero presentare al Quirinale davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Muniti di videocamere, i ragazzi del liceo Fermi hanno realizzato una ricerca sul campo per capire quanto sia realmente conosciuta la Carta fondamentale della Repubblica italiana: «abbiamo intervistato tante persone per le vie e i mercati di Milano ma solo pochi sapevano quali fossero i contenuti degli articoli della Costituzione, compresi quelli fondamentali», commentano gli studenti mentre passano in rassegna i dati raccolti. Da qui l’idea di introdurre il patentino che attesti la conoscenza, almeno basilare, dei principi fondamentali sui cui si basa la Carta. D’altronde, se per guidare non basta avere diciott’anni ma bisogna dimostrare di sapere cosa si sta facendo, perché non dovrebbe valere lo stesso quando si vota? I ragazzi del liceo Fermi accolgono così l’invito espresso in un discorso che Pietro Calamandrei, tra i “padri” della Carta, rivolse nel 1955 agli studenti milanesi: «Voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, farla vivere […] siamo parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo». La proposta dei liceali milanesi veniva elaborata proprio mentre il Parlamento si apprestava ad approvare, in via definitiva, la legge che reintroduce l’educazione civica obbligatoria nelle scuole: tornerà infatti in tutte le classi delle scuole elementari e medie già da settembre.
Imparare ad essere cittadino (anche digitale)
La proposta di legge, voluta fortemente dal Governo “legastellato”, votata in aula a partire dal 29 aprile, è stata approvata alla Camera con 451 voti favorevoli e tre astenuti. Come recita il testo del disegno di legge “a decorrrere dal 1° settembre del primo anno scolastico successivo all’entrata in vigore della presente legge, nel primo e nel secondo ciclo di istruzione è istituito l’insegnamento trasversale dell’educazione civica, che sviluppa la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della società“. L’educazione civica avrà un orario di almeno “33 ore annue, da svolgersi nell’ambito del monte orario obbligatorio previsto“. Nessun nuovo insegnate specifico, ma l’educazione civica sarà una materia di insegnamento trasversale. “Sono altresì promosse l’educazione stradale, l’educazione alla salute e al benessere, l’educazione al volontariato e alla cittadinanza attiva. Tutte le azioni sono finalizzate ad alimentare e rafforzare il rispetto nei confronti delle persone, degli animali e della natura“. Un articolo a parte è dedicato alla “cittadinanza digitale” cui la nuova legge affida il compito di far risvegliare il senso critico di fronte all’alluvione di fake news. Si prevedono infatti lezioni per: “analizzare, confrontare e valutare criticamente la credibilità e l’affidabilità delle fonti di dati, informazioni e contenuti digitali; informarsi e partecipare al dibattito pubblico attraverso l’utilizzo di servizi digitali pubblici e privati; ricercare opportunità di crescita personale attraverso adeguate tecnologie digitali; conoscere le norme comportamentali da osservare nell’ambito dell’utilizzo delle tecnologie digitali e dell’interazione in ambienti digitali; essere in grado di evitare, usando tecnologie digitali, rischi per la salute e minacce al proprio benessere fisico e psicologico; essere in grado di proteggere sé e gli altri da eventuali pericoli in ambienti digitali; essere consapevoli delle tecnologie digitali per il benessere psicofisico e l’inclusione sociale […]”
Uno vale uno?
In questo clima di generale (e speriamo non apparente) ri-affezionamento civile, e in particolare in riferimento alla proposta dei ragazzi del liceo Fermi, è interessante rileggere alcune tesi e proposte (che potremmo definire decisamente in anticipo sui tempi) che John Stuart Mill include nelle sue “Considerazioni sul governo rappresentativo” (1861). Mill concepisce la libertà come autonomia, come possibilità di provare a costruire ciascuno la propria vita a proprio modo. Questa libertà va a vantaggio di tutti, perché una società più creativa è anche più innovativa e più prospera («Quando vi è più vita nelle singole unità, ve ne è di più anche nella massa che compongono», scrive nel saggio “Sulla libertà”). Ma vi è in tale concezione un enorme pericolo: la democrazia come “puro” governo del popolo esporrebbe lo Stato al rischio reale di trovarsi nelle mani della massa (più o meno colta essa sia), in balia dei suoi desideri, dei suoi umori e della sua influenzabilità. In assenza di un bagaglio minino di elementi culturali in grado di orientare nello spazio dell’agone pubblico il cittadino elettore, la titolarità dei diritti politici rischia di diventare un inaccettabile esercizio d’irresponsabilità collettiva. Escludere però in via definitiva una parte della cittadinanza dai processi decisionali ripugnava alla sua coscienza di autentico liberale. Fra i meccanismi per frenare il possibile dispotismo della maggioranza, Mill immaginò il suffragio «a peso variabile», che avrebbe consentito ai più istruiti di contare di più. A questo voto «pesante» si sarebbe potuti accedere con «esami volontari accessibili a tutti». Muniti insomma di una carta che “attesti il proprio grado di educazione alla vita politica e civile”. Per Mill infatti la democrazia è qualità del voto, e del dibattito che lo precede, e non quantità (così come il suo utilitarismo su tale punto si differenzia da quello di Bentham). Certo ha un bel dire Mill che «i soggetti di un voto meno influente non dovrebbero sentirsi irritati per questo», e che «solo un pazzo» può offendersi perché «si riconosce l’esistenza di altri con opinioni e aspirazioni superiori alle sue». È a tutti chiaro, oggi come ieri, che una società esiste proprio perché ciascuno ha competenze diverse dagli altri: il panettiere ha bisogno dell’idraulico e il sarto del pizzaiolo. Nessuno «si sente irritato» per questo. Ma in ciascuno di noi vi è l’orgogliosa consapevolezza che la vita pubblica è un’altra cosa, e che suffragio universale implica l’equivalenza del valore delle opinioni. In una democrazia presa sul serio, davvero uno vale uno. Un secolo e mezzo fa, si pensava che governo popolare ed istruzione di massa sarebbero andate assieme. Per lo stesso Mill, «uno dei principali meriti di un governo libero è proprio quello di educare l’intelligenza e i sentimenti persino degli strati sociali più bassi chiamati a prendere parte alle decisioni». Il suffragio universale avrebbe costituito una sorta di palestra, l’abitudine a prendere decisioni ci avrebbe reso decisori migliori. Ma l’elettore razionale che legge i programmi e si sposta da sinistra a destra a seconda delle circostanze, è una fantasia. Il “voto di pancia” è assai più probabile: capire chi propone cosa, e poi verificare che lo faccia, richiede troppa fatica e tempo. Né è certo che i più colti ed informati siano liberi da pregiudizi.