ATTENZIONE: IN QUESTO ARTICOLO SONO PRESENTI SPOILERS RIGUARDANTI IL FILM ANIMALI FANTASTICI: I CRIMINI DI GRINDELWALD.
L’attesissimo sequel di animali fantastici è finalmente arrivato in sala e ci mostra più da vicino quel personaggio fondamentale, seppure quasi assente nel primo film, che è Grindelwald, potentissimo e malvagio mago interpretato da un glaciale Johnny Depp questa volta davvero protagonista. Al di là delle azioni di questo personaggio, ciò che è interessante è che, al contrario di Lord Voldemort, non si costruisce il consenso nel mondo dei maghi esclusivamente attraverso la forza, la paura e le dimostrazioni del suo potere, ma soprattutto attraverso la persuasione e la sua capacità di parlare, già dalle prime scene, infatti, viene detto che è “molto persuasivo” e di conseguenza è stato necessario asportargli la lingua. Proprio lì dunque risiede la sua magia più grande ed inarrestabile, nella lingua, con la quale è capace di creare abili discorsi e suggestioni in grado di consolidare la sua posizione, di incantare e di attirare dalla sua parte maghi di ogni genere, dai più spietati e sadici come Vinda Rosier sua aiutante capace di uccidere un bambino poco più che in fasce ai più buoni ma fragili come Queenie Goldstein, sorella dell’auror Tina Goldstein.
Se il potere della parola viene qui esaltato in scene come quella girata nel cimitero dei Lastrange, già in Grecia filosofi, autori e poeti si erano resi conto dell’importanza del discorso e della sua utilità. Paradigmatici a questo proposito sono sicuramente i sofisti del V secolo a.C., a partire da Protagora che si farà portavoce di un relativismo abbastanza diffuso e pervasivo durante questo secolo, affermando che “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono così come sono e di quelle che non sono come non sono” intendendo sostenere che la percezione sensibile dell’uomo è sempre vera in ogni caso, se infatti un malato percepisse il miele come amaro per la sua particolare condizione di salute, questo sarebbe vero per lui e la sua opinione avrebbe lo stesso valore di verità di quella di una persona sana che lo percepirebbe invece come dolce. Alla luce di questa conoscenza e della capacità di manipolare le parole, il ruolo del sofista sarebbe, per Protagora, quello di mettere d’accordo i cittadini circa ciò che è meglio per la polis utilizzando il discorso per conciliare posizioni apparentemente opposte ed in contrasto.

Pieno compimento del processo di presa di coscienza di quello che è il potere della parola si può certamente trovare nel pensiero di Gorgia, filosofo contemporaneo di Protagora, che paragonava la parola appunto ad un incantamento magico ritendendola qualcosa di veramente divino, in grado di muovere l’uomo trascinandolo da una posizione all’altra, da una convinzione all’altra e da un comportamento all’altro con facilità e disinvoltura essendo in grado di controllare le sue passioni e di muoverle a piacimento grazie al potere illimitato che è in grado di esercitare sull’anima umana a patto di saper valutare il momento e il tipo di discorso più adatto in relazione al pubblico e alla sua condizione psicologica. Gorgia dunque insegnava ai giovani e ricchi ateniesi proprio la differenza fra le varie tipologie di discorso e il loro utilizzo. Più avanti il discorso e il suo insegnamento verranno poi istituzionalizzati in vere e proprie scuole di retorica, capeggiate da grandi retori greci quali Lisia, Isocrate e Demostene, che pretendevano di insegnare le varie tecniche per costruire un discorso in base agli obiettivi di questo: giudiziari, deliberativi (con finalità politiche) o epidittici (tenuti in occasione di eventi pubblici). Il potere della parola non sarà però sempre ben visto, tutt’altro. Già con Aristofane, commediografo del V secolo a.C., nella commedia Le Nuvole si può trovare una critica ai sofisti e ai loro insegnamenti (incarnati erroneamente nella figura di Socrate) in quanto irrispettosi delle leggi di natura e della morale essendo in grado di giustificare qualunque azione, addirittura il pestaggio di un padre da parte del figlio. Anche Platone d’altra parte non vede particolarmente di buon occhio i sofisti e il potere della parola nella poesia in quanto foriera di falsità e passioni sconvenienti per il filosofo che dovrebbe invece riuscire a tenerle sotto controllo.

Con l’avvento della supremazia latina e il declino della civiltà greca seguito dalla conquista romana, l’arte della retorica troverà una buona accoglienza a Roma raggiungendo il suo periodo di splendore con un avvocato come Cicerone per poi andare incontro ad una lenta e sempre più grave decadenza provocata dalla progressiva perdita della libertà di parola sotto il principato e l’impero che forzeranno gli appassionati ed infervorati appelli ciceroniani pronunciati nel foro a lasciare il posto a sempre più astratti ed inutili esercizi retorici di difesa di personaggi non esistenti (come Elena di Troia) legati ad eventi mitici all’interno di scuole ormai prive di qualsiasi prestigio. Ad analizzare questa decadenza, eventualmente anche in termini di una più ampia critica a livello politico e morale saranno Tacito, Quintiliano e Seneca.
Quintiliano in particolare sarà autore dell’Institutio Oratoria, in cui cerca di riportare la retorica al suo splendore originario (o almeno ad un miglioramento rispetto ai suoi tempi) proponendo un’educazione migliore basata su ottimi esempi quale sopra tutti Cicerone e la sua tecnica di composizione dei discorsi in cinque momenti in realtà già teorizzata dall’anonimo autore della Rhetorica ad Herennium: inventio (ricerca degli argomenti atti a sostenere una data tesi), dispositio (disposizione in ordine degli argomenti), elocutio (ricerca delle espressioni stilisticamente migliori), memoria (apprendimento mnemonico del discorso) e actio (accompagnamento del discorso con gesti quasi teatrali per sottolineare le tesi sostenute).

Ora, come non vedere l’applicazione di questi momenti (ad eccezione dei primi 3 che sono sottintesi) nei discorsi anche brevi di Grindelwald? Quello con cui convince Queenie a passare dalla sua parte per esempio, ma soprattutto l’ultimo poco prima del finale, abilmente costruito, esposto a memoria con l’aiuto di effetti teatrali quali una sorta di narghilè a forma di teschio con il quale mostra un futuro di guerra e distruzione, il volontario invito rivolto agli auror a scendere al centro della stanza facendo crescere nel contempo la tensione e l’ostilità nei loro confronti per suscitare una reazione violenta che lo deresponsabilizzasse e giustificasse le sue azioni, l’uso di espressioni ambigue nei confronti dei babbani come: “Io non li odio. Non dico che i babbani siano inferiori, ma diversi, non sono inutili, ma hanno un’utilità diversa” e di espressioni solidaristiche nei confronti della ragazza uccisa da un auror chiamata “giovane guerriera” tutte cose già presenti nel modello greco e latino e poi tristemente riprese da dittatori del Novecento.
Appare dunque chiaro come una parola ben veicolata e supportata da qualche accorgimento possa essere più potente di un’incantesimo e certamente non inerte o neutra. Al di là della trama e del film quindi, l’esempio di Grindelwald, ampiamente sostenuto, come si è visto, da modelli, pensieri e concezioni antiche e non, sembra ammonirci: attenzione a come usiamo le parole, perché esse sono davvero divine e capaci di qualsiasi cosa, dalla più bella magia alla peggiore maledizione.
Lorenzo Delpiano