L’uomo ha smesso di bastare a se stesso.
In un passato non troppo remoto e per alcuni (eletti o dannati che siano) ancora presente, si risolveva nella ricerca di un Infinito altro, altissimo e meraviglioso, quell’incessante esigenza propria dell’Essere che vuole l’uomo peregrino nelle albe del gioco e mercenario nelle notti del pianto, pioniere di mondi nuovi che si snodano al confine tra Cielo e Terra e mendicante tra Misteri indegnamente destinati a restare tali e Verità ancora da inventare.
Ma bando alle speculazioni filosofiche.
Oggi persino l’Infinito sembra insufficiente, scialbo, inconsistente per saziare il solo animale bipede a serbare il privilegio di domandarsi “perché” e per placare quella sete ingorda che lo tormenta e gli conferisce vita.
Se da sempre l’uomo ha cercato di guardarsi dentro, oggi questo sguardo rivolto a se stesso è divenuto così sottile e viscerale da penetrare nei più profondi e vorticosi anfratti del suo corpo, perdendosi in quelle eliche arcane e affascinanti che racchiudono in circa due metri condensati in un mucchio di istoni e una manciata di nanometri il sigillo di ciò che si era, si è e si sarà e raccontano storie.
L’acido desossiribonucleico (in sigla DNA), macromolecola composta da nucleotidi cui è affidato il trasporto del codice genetico e quindi l’insieme dei tratti che caratterizzano in modo peculiare l’identità di un individuo, diventa allora il libro della vita: un romanzo già scritto e destinato a compiersi?
Ebbene, oggi più che mai l’ultima parola sembra spettare all’uomo, che rivendica con una scienza sempre più sofisticata e apparentemente onnipotente il massimo controllo sull’esistenza e sull’esistente.
Il meccanismo del copia – taglia – incolla, non è, alla luce di ciò, soltanto proprio del linguaggio Word, ma diventa il codice per modificare, costruire, decostruire e ricostruire la vita stessa, quando l’oggetto di queste “semplici” e meccaniche azioni non sono parole virtuali ma blastocisti e il foglio bianco su cui sarà impresso il futuro imminente di una neonata creatura targata “progresso” è l’utero della cosiddetta “madre sostituta”.
Si costerna, s’indigna, s’impegna l’uomo tecnologo e – per proseguire sulla scia del testo di De Andrè – è pronto a tutto pur di non gettare neanche “dignitosamente” la spugna, una spugna impregnata di aspettative che è emblema, analogamente, di progetti dall’onere grande e dalla mole non indifferente, fardello pesante, forse troppo, per un granello di pulviscolo atmosferico dalle fattezze umane.
Il nodo gordiano della manipolazione biologica ha, dunque, un nome ben preciso: clonazione.
Che essa rappresenti un tema assai dibattuto dal punto di vista etico e morale è più che notorio.
Cosa accade, però, quando questa particolare forma di sperimentazione si spoglia della sua connotazione prettamente scientifica fino a diventare una commistione infelice tra accanimento contro la morte del proprio animale domestico e capriccio borghese?
I migliori amici (in provetta) dell’uomo
Il dolore per la morte di un animale domestico può essere straziante e difficile da fronteggiare. E’ proprio per questo che alcuni padroni particolarmente addolorati, nonché particolarmente facoltosi, cercano di fare ricorso a metodi decisamente alternativi per sopperire alla mancanza del loro amico a quattro zampe. Tra queste tecniche, vi è proprio la clonazione.
Usata dapprima per cercare di riprodurre il patrimonio genetico dei purosangue, preziosissimi cavalli da corsa, la scienza del genoma viene ormai applicata anche per replicare in laboratorio i più comuni animali da compagnia.
I costi? Centomila euro se si tratta di un cane, “solo” venticinque mila per quanto concerne i gatti.
Egoismo fantastico e dove trovarlo
Etica a parte, le criticità oggettive della clonazione non sono poche anche sotto altri aspetti.
Innanzitutto, gli animali replicati sono simili ma non uguali a quello che si tenta, in qualche modo, di far sopravvivere. In secondo luogo, questi cani e questi gatti “bis” sembrano essere più fragili degli altri e più vulnerabili alle malattie. Ciò comporta per molti di essi la morte immediata, mentre per altri implica, invece, una vita breve e sofferente. Non solo, per ottenere un clone è necessario fare più e più tentativi.
Il che significa sottoporre a interventi chirurgici un gran numero di animali, tra donatori e surrogati.
Ergo, ancora sofferenze e condanne a morte inflitte in maniera più o meno conscia e gratuita (anzi, questa volta per nulla gratuita) alle sfortunate cavie, vittime non più di una scienza scevra di scrupoli, ma dell’egoismo spregiudicato che si cela sotto le mentite spoglie di un “padroncino affettuoso”.
A dispetto di ciò, tale pratica dilaga sempre più, tanto che i Sooam Labs hanno già clonato oltre 600 animali e allo stesso modo anche tanti altri laboratori assecondano questo nuovo fenomeno, che si estende a macchia d’olio soprattutto negli Stati Uniti.
Tra gli altri aderenti a questa pratica sui generis, anche Barbra Streisand, che ha clonato la sua “amata” cagnetta in punto di morte non una, ma due ben volte.
Come nasce un clone
Per clonazione si intende la pratica scientifica che consiste nel riprodurre, mediante processi genetici e trapianti da cellule di tessuti in cellule uovo, una copia identica ad un individuo preesistente, con conseguente creazione di un clone, ovvero un essere vegetale o animale, etimologicamente (deriva dal greco klon) “germoglio” o “ramoscello”, che abbia lo stesso corredo cromosomico dell’essere duplicato.
La tecnica maggiormente utilizzata è quella del trasferimento del nucleo di cellule somatiche e consiste nel prelevare il nucleo di una cellula da un tessuto animale (per esempio cellule fetali) con conseguente inserimento in una cellula uovo dalla quale sia stato rimosso il nucleo contenente il DNA. La combinazione risultante è trattata con combinazioni di enzimi e riportata allo stato embrionale, in modo tale che le sue cellule possano differenziarsi in ogni tipo di cellula del corpo, come per una cellula uovo appena fecondata.
A questo punto, il tutto viene impiantato in una madre surrogata ed inizia l’attesa, sperando che il processo vada a buon fine.
Un’ipotesi affascinante e terribile: la clonazione umana
Poco meno di un anno fa, una notizia di cronaca riportata in un articolo di Focus firmato da Elisabetta Intini (tra l’latro ripreso in una delle tracce della prima prova dell’Esame di Stato 2018) raccontava il primo caso di clonazione di primati non umani: in Cina, infatti, sono stati ottenuti due macachi geneticamente identici con la stessa tecnica usata ne 1996 per la pecora Dolly e tale operazione ha rappresentato l’“inaugurazione” di clonazioni riuscite nella categoria scimmie.
E’ stata la rivista Cell a descrivere il primo tentativo di clonazione di un primate terminato con successo, esperimento che in futuro, usato in unione con la tecnica CRISPR, potrebbe portare ad ottenere intere generazioni di scimmie geneticamente identiche da sfruttare nel campo della ricerca biomedica.
Questa ipotesi, insieme al timore che il passo verso la clonazione umana possa essere ora più corto e vicino, ha suscitato considerazioni tanto speranzose quanto pregne di perplessità nella comunità scientifica.
Quali prospettive: cavie su misura per un futuro su misura?
Tra speranze, timori e remore, gli scienziati non hanno accennato per ora alla possibile clonazione umana tra gli sviluppi futuribili della tecnica. Tuttavia, non mancano le idee in merito alle prospettive circa il suo utilizzo nel campo della ricerca biomedica. Si parlerebbe, in tal caso, di clonazione terapeutica (è il caso delle cellule staminali, come sottolineato da Demetrio Neri ne “La bioetica in laboratorio”) e non riproduttiva o riproduttiva con sole finalità laboratoriali.
In combinazione con tecniche di editing genetico, infatti, la biotecnologia potrebbe essere usata per creare modelli di primati non umani per malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer, o derivanti da mutazioni genetiche come alcuni tipi di cancro. Si tratterebbe di “cave su misura”, insomma, realizzate ad hoc al fine di favorire il benessere per gli umani e garantire loro un futuro quanto più roseo possibile, un futuro che cercano di costruire e che appare prospettarsi anch’esso sempre più “su misura” per gli uomini, fatto a immagine e somiglianza delle loro aspettative e delle necessità che nutrono o potrebbero un giorno nutrire, in un’ottica sì previdenziale ma ancor di più tesa alla spregiudicatezza morale.
Senza dubbio, è una prospettiva questa che solleva controversie etiche importanti in tutta la comunità scientifica, nell’altalenarsi di interrogativi senza tempo circa il cosiddetto progresso che, a parere di molti, culmina col tramutarsi spesso in regresso sul piano di valori e principi, funamboli in bilico tra ieri e domani, tormentati da zavorre di paure che intorpidiscono ed abbagliati da barlumi di evoluzione che fanno sì che sia fin troppo facile smarrirsi nel caos brumoso e assordante dell’ambizione.
Marinai ambiziosi, orizzonti ambiti e colonne d’Ercole
Chi può porre limiti alla grandezza della mente umana, all’altezza del suo ingegno e all’acutezza delle sue aspettative? Chi può proclamarsi arbitro, giudice, censore e detentore della giustizia e dell’integrità morale più assoluta? Non è mai facile prendere posizione nel dibattito etico, poiché mai facile è discernere in maniera distinta il giusto e l’errato: “la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”, come scrisse Manzoni ne “I promessi sposi”.
Condannare a spada tratta o altresì esaltare fino all’esasperazione risulta inutile e banale.
Nel momento in cui la tecno-scienza diventa infrastruttura planetaria, cosa vuole dire e come fare per salvaguardare il valore della persona umana?
Afferirsi alle normative già ben consolidate e universalmente condivise che pongono severi vincoli di sicurezza alle applicazioni biomediche, quindi per esempio all’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, significa parlare di biotecnologia secondo un criterio preciso, quello della dignità.
In quest’ottica, lo scienziato non può considerare una mortificazione il rifiuto morale della clonazione umana nel momento in cui essa fa venir meno questo principio inalienabile, violando non solo le leggi della natura ma addirittura il valore dell’Essere in quanto tale, nel senso proprio del termine, che sia inteso nell’interpretazione aristotelica di sostanza (ciò che è causa sui, ciò per cui una cosa è quel che è), in quella platonica di essenza (ciò che è realmente, ciò per cui una cosa è quel che è anziché un’altra) o ancora volendo applicare il postulato del cogito di Cartesio: cogito ergo sum, l’essere è perché imprescindibile dalla facoltà di pensare e dubitare; potremmo, poi, fare riferimento a Spinoza, che ha definito la sostanza come ciò che è in sé e viene concepito per sé, dunque come qualcosa di assoluto, sciolto, autosufficiente; a Heidegger, che asseriva che l’attività cognitiva di comprensione del mondo non può essere separata dal vivere nella realtà, ovvero dall’Esserci; o, inoltre, afferirci a Brentano e alla teoria degli stati intenzionali, quindi, all’intenzionalità come discriminante fondamentale di ogni azione.
Ma come può un clone investire un oggetto di un’intenzione?
Fino a che punto queste creature senza Creatore saranno perfettibili?
Qualora si giungesse a risultati davvero ottimali, esse avrebbero diritto allo status di essere umano?
Cosa conferisce degnamente l’attribuzione di questo aggettivo dalle sfaccettature così controverse, “umano”?
Nella risoluzione di un compromesso che medi tra utile e moralmente dignitoso ed accettabile potrebbe porsi un assenso parsimonioso alla clonazione terapeutica ed un più sentenzioso veto a quella riproduttiva.
Tuttavia, non è in questa mancata sovrapposizione tra diritti umani e libertà di fare scienza che si individua l’ostruzionismo al progresso.
Al contrario, questo “divieto” mira ad eliminare la degenerazione demiurgica della ricerca, riportandola alla sua dignità, appunto. La dignità della ricerca scientifica sta nel fatto di essere una delle risorse più ricche volte al benessere dell’umanità.
La dignità dell’uomo si confina invece, appunto, nell’unicità della propria humanitas.
D’altra parte, anche in tema di clonazione, la ricerca potrebbe trovare uno spazio accessibile nel regno vegetale ed animale, laddove rappresentasse una necessità o seria utilità per l’uomo o per gli altri esseri viventi, fatte salve le regole di tutela della pianta o dell’animale stesso e dell’obbligo di rispettare la biodiversità specifica, oltre alla priorità di scongiurare potenziali rischi altri.
La ricerca scientifica a beneficio dell’uomo, quando questa è volta alla guarigione da malattie, al sollievo della sofferenza, alla soluzione di problemi dovuti all’insufficienza alimentare su scala mondiale e al migliore utilizzo delle risorse della terra rappresenta indubbiamente una speranza per l’umanità, che viene riposta con fiducia al genio, al lavoro e al buon senso degli scienziati, marinai che, oltre a tener conto delle insidie che Scilla e Cariddi potrebbero creare e delle colonne d’Ercole da non oltrepassare, devono sempre impugnare ben salda la bussola dell’etica, dato che nessuno tanto quanto chi si dedica costantemente alla ricerca è propriamente un Ulisse e, si sa: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”.
A quale meta porterà la conoscenza, analogamente? Ai posteri l’ardua sentenza, a chi invece vive l’oggi ed ha modo di assaporare passo dopo passo i pro e i contro di questo complesso capitolo di scienza, spetta l’opportunità di comprendere e ponderare ogni sua sfaccettatura nell’approccio critico con l’etica, con la tecnica e con la vita, senza dimenticare mai che l’assunto kantiano secondo cui “l’uomo va sempre trattato come un fine e mai come un mezzo”.
Mariachiara Longo