Un innovativo modo per indagare le gravi malattie direttamente collegate alle aree sottocorticali del cervello potrebbe essere definitivamente alle porte. A proporlo sono stati ricercatori dell’Università di Ginevra che – sfruttando la tecnica dell’elettroencefalogramma unita a specifici algoritmi matematici – avrebbero individuato un metodo non invasivo per far fronte al problema. Ma quali e quanti altri misteri nasconde il mondo della medicina?
Attualmente tutti i trattamenti esistenti per regolare e misurare l’attività delle aree sottocorticali sono altamente invasivi. La ricerca in medicina di un metodo più “leggero” rispetto al classico impianto di elettrodi nel cervello è stato ciò che ha spinto i ricercatori dell’Università di Ginevra (UNIGE), Svizzera e dell’Università di Colonia (Germania) alla scoperta di un metodo non invasivo – nello specifico, l’EEG – in grado di essere affiancato ad un pattern di algoritmi matematici e misurare esternamente tale attività cerebrale.
La tecnica dell’elettroencefalogramma in medicina
Attraverso l’utilizzo di 256 elettrodi posizionati sul cuoio capelluto e con il supporto di alcuni algoritmi matematici combinati con l’imaging anatomico, ecco che gli studiosi hanno potuto osservare per la prima volta ciò che accade nella parte più profonda del nostro cervello (deep brain), il tutto senza dover inserire direttamente degli strumenti in modo invasivo. I trattamenti attualmente esistenti per regolare e misurare l’attività delle aree sottocorticali, infatti, si dimostrano altamente infestanti, per non parlare del fatto che talvolta essi agiscono senza che gli stessi scienziati o medici ne conoscano le vere modalità.
Eppure, questi nuovi risultati della medicina moderna – pubblicati su Nature Communications – sembrano aprire la strada a nuove e straordinarie applicazioni cliniche.
La ricerca condotta da UNIGE
Ad essere scelti come soggetti per la ricerca sono stati quattro pazienti affetti da OCD e Tourette, ai quali erano stati precedentemente somministrati test con impianti di elettrodi. Le stesse analisi vennero poi effettuate una seconda volta, ma sfruttando la tecnica dell’EEG per misurare le attività delle medesime aree partendo solo dalla superficie. Come ipotizzato dai ricercatori, i risultati si rivelarono perfettamente correlati. “Ottenendo segnali molto simili a quelli degli impianti, abbiamo finalmente dimostrato che l’EEG di superficie può essere usato per vedere cosa sta accadendo nella parte più profonda del cervello senza doverlo aprire direttamente” è stato il commento soddisfatto di Martin Seeber, ricercatore presso il Dipartimento di Neuroscienze e primo autore dello studio. “Ora che sappiamo che l’EEG può essere usato per analizzare le zone sottocorticali possiamo provare a capire come comunicano tra loro e la corteccia, nella speranza di scoprire le vere cause di malattie come Tourette e OCD”.
Quanto è “deep” il nostro cervello?
Le aree subcorticali del nostro cervello – incastonate tra le sue zone più profonde – rimangono ancora oggi uno dei più grandi misteri della mente umana. Sebbene gli scienziati siano consapevoli del ruolo fondamentale che svolgono nell’attività motoria, emotiva ed associativa, il loro funzionamento resta tutt’ora sconosciuto: ad esse, in ogni caso, si dimostrano direttamente collegate malattie particolarmente gravi tra cui il morbo di Parkinson, la sindrome di Tourette o i disturbi ossessivo-compulsivi.
Ma quali altri misteri medici esistono attualmente e continuano ad interrogare senza risposta le menti di medici e scienziati?
Giovani per sempre
Tra i casi più rari nella storia della medicina, uno dei primati appartiene di diritto a Brooke Greenberg, giovane statunitense morta all’età di 20 anni nel 2013… ma, all’apparenza, tutt’altro che ventenne. La ragazza, infatti, era affetta da una condizione clinica tutt’altro che conosciuta, che le aveva impedito di svilupparsi e l’aveva fatta rimanere fisicamente e cognitivamente al livello di un neonato.
All’età di cinque anni il suo corpo aveva smesso di svilupparsi, eccezion fatta per capelli e unghie che continuavano a crescere ogni anno. Sebbene siano stati condotti diversi studi sul suo DNA (in particolare per quanto riguardava i geni associati all’invecchiamento) e sulla sua storia famigliare, non venne mai individuata nessuna anormalità nel background della ragazza, tanto che gli scienziati continuarono a riferirsi alle sue condizioni con il nome di “Sindrome X”: una sindrome metabolica che ha accompagnato la ragazza fino al momento del suo decesso, quando era alta circa 76 cm, pesava meno di 8 kg e mostrava un’età mentale equiparabile a quella di un infante di circa un anno.
Memoria autobiografica superiore
Un caso altrettanto inspiegabile è quello di Jill Price, la prima donna americana alla quale venne riconosciuta la diagnosi di ipertimesia (o sindrome ipertimesica), ovvero quella condizione per cui una persona possiede una memoria autobiografica superiore capace di immagazzinare il ricordo di gran parte degli eventi vissuti nella propria esistenza. Nel caso della donna statunitense, ad esempio, ella è in grado di ricordare ogni minimo dettaglio di un qualsiasi giorno, anche risalente a moltissimi anni prima, dando il via ad una serie di indagini che hanno permesso di individuare diversi adulti (e anche bambini) dotati della medesima abilità “sovrumana”. Il vero mistero, dunque, resta quindi perché alcune persone possiedano questa intelligenza mentre altre no: un quesito ancora aperto in campo medico e scientifico.
Risvegliarsi dalla morte come Lazzaro
Nonostante questa strana condizione prenda il nome di “sindrome di Lazzaro”, non tutto la accomuna al noto passo evangelico a cui si riferisce: non si tratta, infatti, di persone miracolosamente risvegliatesi dopo diversi giorni di decesso, ma piuttosto di casi (molto rari) in cui il cuore di un individuo ha incredibilmente ricominciato spontaneamente a battere dopo pochi minuti dal termine delle manovre di rianimazione, ovvero quando ormai il paziente era stato dichiarato morto.
In circa due terzi dei casi, la “resurrezione” in questione è durata solo pochi giorni o mesi, e generalmente la “seconda morte” si è manifestata come conseguenza della stessa patologia che aveva causato la prima (nonostante fosse un decesso solo “apparente”). Sebbene si tratti di un numero ristretto di fortunati, alcune persone sembrerebbero al contrario essere tornate alla loro vita di tutti giorni. Di certo, però, con un aneddoto imbattibile da raccontare.
Francesca Amato