Se è evidente che la società umana di ogni luogo e tempo è caratterizzata dalla tensione verso la verità, intesa come il raggiungimento di una conoscenza sempre più precisa e dettagliata, è altrettanto evidente l’imposizione di limiti che l’essere umano stesso ha impresso alle proprie possibilità conoscitive nel corso dei secoli e nei modi più disparati. Quello verso la verità è un cammino lento e faticoso, talvolta doloroso, che l’uomo, per paura di scoprire il limite estremo delle proprie possibilità, ha spesso cercato di arginare.
Il concetto di “limite” nasce nell’antica Grecia con i primi ricorsi al logos e al razionalismo: già i pitagorici parlano del Peras (“confine, limite”) come antitesi positiva rispetto alla negatività dell’Apeiron, ovvero ciò che è per eccellenza senza argini e barriere: l’infinito. La società latina erediterà e assorbirà le idee del razionalismo greco e farà del limes il principio fondativo della propria civiltà. Non a caso la leggenda intorno alla fondazione di Roma, portatrice di un fondamentale valore identitario, comincia con la violazione di un confine; ma anche uno tra i più grandi eventi storici, l’attraversamento del Rubicone da parte di Cesare, si basa sulla violazione di un limite geografico (il fiume) e temporale (come testimonia la celeberrima frase “alea iacta est”: il dado è tratto, non c’è rimedio all’irreversibilità del tempo).
La tensione verso l’Apeiron
È evidente, dunque, come le stesse società antiche che hanno rappresentato bacini fertili per lo sviluppo di riflessioni razionali, siano state caratterizzate da un’irrimediabile attrazione per l’irrazionalità. La società dell’antica Grecia, soprattutto, subì il fascino dell’Apeiron, del mondo esoterico dei misteri eleusini, ma fu anche la culla di quelle discipline scientifiche che sono tuttora alla base della nostra formazione intellettuale. Eppure basta osservare il corpus della loro mitologia per accorgersi che i Greci erano pervasi dall’ossessiva paura di offendere, attraverso le loro abilità e conoscenze, qualche entità ad essi superiore, che si trattasse della divinità o della natura. In questo il mondo greco è particolarmente chiaro: la natura era considerata l’entità più forte in assoluto la cui volontà si manifestava attraverso le azioni divine: essa può ribellarsi all’uomo e di conseguenza l’essere umano deve imporsi un limite ben preciso, quello di considerare la risposta della natura al suo tentativo di modificarla. È superfluo citare i fin troppo noti Prometeo e Dedalo, punito con la morte del figlio per aver di netto valicato i limiti conferiti dalla natura all’uomo.
Edipo e la tragedia della conoscenza
Più interessante e profondo è il caso di Edipo, emblema dell’insaziabile intelligenza umana che non si ferma alla soluzione di un enigma, ma si spinge oltre, alla ricerca di una verità che può tramutarsi in rovina, a costo di pagare il prezzo di non poterne sopportare il peso. L’Edipo sofocleo è un personaggio dinamico, colto nella sua evoluzione: nel corso della tragedia il re di Tebe passa dalla consapevolezza della solidità (illusoria) della propria sapienza, la stessa grazie alla quale era stato capace di risolvere l’enigma proposto dalla Sfinge, all’inquietudine di un’angoscia che lo tormenta e che sposta il punto focale della vicenda dall’esteirorità politica all’interiorità psicologica del personaggio. Edipo sente che qualcosa minaccia non più solo la tranquillità del suo regno, ma anche la tranquillità della sua esistenza. Tutta la tragedia è giocata sull’opposizione contrastiva tra il re, convinto della propria sapienza, e l’indovino Tiresia, un anziano cieco che, proprio a causa della cecità fisica (ma non intellettuale), è capace di vedere attraverso gli occhi della mente. L’indovino mette in guardia Edipo e lo scoraggia dal tentare di trovare la ragione all’origine della pestilenza che affligge il suo regno, avvertendolo che la scoperta della verità si rivelerà per lui traumatica e funesta. Nonostante l’ammonimento dell’indovino, Edipo decide di andare incontro alla verità e, così, alla sua stessa rovina: comincia il tormentato percorso del personaggio che, attraverso un inarrestabile climax ascendente, si prepara ad accogliere il fatale destino che incombe su di lui. Edipo è il simbolo di colui pronto a sacrificare se stesso e coloro che ama in nome del bene supremo della conoscenza, la cui acquisizione completa è resa emblematicamente attraverso l’accecamento autoinflitto, che, alla fine, pone il re alla stregua dell’indovino Tiresia. Edipo non possiede l’onniscenza dell’oracolo: è un uomo e, in quanto tale, il percorso che lo guida alla verità è lento e faticoso. Non troverà ricompensa alla fine del cammino, solo un traumatico dolore, a ricordarci che non sempre la verità ha il volto di una dolce sorpresa.
Ulisse e il peccato intellettuale
Questa stessa paura ossessiva di venire puniti per essersi affidati alla propria ragione ha a lungo permeato anche la società medievale, all’interno della quale le istituzioni ecclesiastiche cercavano di arginare la sete di conoscenza degli individui: tutto ciò che Dio aveva lecitamente concesso all’uomo di sapere, era contenuto nell’antica voce delle auctoritas. Tentare di valicare quei confini conoscitivi imposti all’uomo era considerato un peccato di superbia, nonché di sfida allo stesso Dio che li aveva stabiliti. Il più grande esempio di trasgressione verso la volontà divina è offerto dall’Ulisse dantesco che, punito nel girone dei fraudolenti, è colpevole anche di aver intrapreso un folle volo. Folle perché né voluto né guidato da Dio. Folle perché abbandona il percorso verticale e unidirezionale di ascesa verso Dio caro alla società medievale, in favore di un percorso orizzontale e vorticoso: il percorso terreno dell’uomo corrotto. Folle perché ha il coraggio di oltrepassare le Colonne d’Ercole, limite estremo della terra che lo avrebbe codotto al “mondo sanza gente”. Non a caso esse indicano metaforicamente i confini estremi della conoscenza umana che Ulisse, coraggiosamente e rischiando la propria vita, decide di valicare e oltre i quali, infatti, troverà la morte. Tuttavia l’intero episodio è giocato attraverso una contraddizione implicita: il Dante giudice condanna Ulisse (poco rilevante il fatto che, ufficialmente, sia punito per la sua abilità di ingannatore), ma il Dante personaggio, il Dante uomo, in fondo, ammira l’eroe multiforme e curioso della tradizione omerica. E, forse, si rispecchia anche in esso. Infatti il peccato di Ulisse è un peccato intellettuale, alla fine non così diverso da quello commesso dallo stesso Dante e che lo aveva condotto alla selva oscura, ossia l’aver cercato la verità per mezzo della ragione e non della teologia. L’ammirazione latente verso il suo personaggio è evidente nel fatto, non trascurabile, che Dante pone proprio sulle labbra di Ulisse uno dei primi e, sicuramente, uno dei più grandi elogi all’intelletto umano: “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza”.