Pregiudizio e stereotipo sono oggi concetti particolarmente noti e diventati quasi “di senso comune”: l’evoluzione storica e il tessuto sociale contemporaneo hanno reso necessaria una “economizzazione cognitiva” che rende impossibile non stereotipizzare e molto difficile non ragionare per macro-categorie.
Il modo in cui un gruppo, ridotto ad uno stereotipo, viene investito di pregiudizio è stato a lungo e in modo diffuso oggetto di studio della Psicologia Sociale; diversi sono stati, a partire dagli anni ’50, i modelli e le teorie presentate.
Oggi presentiamo uno dei modelli più recenti, nonché attualmente il più diffuso e che trova maggiore riscontro nella Realtà sociale: il Modello del Contenuto dello Stereotipo (Stereotype Content Model, abbreviato SCM).
UN MODELLO BIDIMENSIONALE
Il Modello del Contenuto degli Stereotipi, sviluppato nel 2002 dalla psicologa sociale Susan Fiske in collaborazione con i colleghi Amy Cuddy, Jun Xu e Peter Glick, è il più autorevole modello utilizzato per spiegare il meccanismo e il funzionamento dello stereotipo all’interno della Psicologia Sociale e dei Gruppi.
Secondo il Modello, tendiamo a valutare in modo pregiudizievole gli altri in riferimento al loro gruppo d’appartenenza, a cui attribuiamo una serie di credenze a priori e di pre-concetti (generando così gli stereotipi appunto), secondo due dimensioni principali: il Calore, che riguarda le relazioni sociali e cooperative e comprende tratti ed espressioni come “socievole”, “freddo”, “onesto” o “sleale”, e la Competenza, che raccoglie gli aspetti della persona che hanno a che fare con il raggiungimento di obiettivi: “competente”, “capace”, “efficiente”, “stupido”, “incapace”…
L’interazione tra di esse genera quattro combinazioni di stereotipi, a seconda della valenza, alta o bassa, di queste due dimensioni.
Ogni forma di pregiudizio identificato dal Modello è rivolto ad un preciso gruppo stereotipato, che suscita una specifica risposta comportamentale motivata da una componente affettiva.
I CONTENUTI
Individui appartenenti a gruppi percepiti alti in calore e alti in competenza sono colpiti da un pregiudizio di ammirazione: è solitamente riferito al proprio gruppo di riferimento e di cui ci si sente parte o a chi percepiamo come alleato; l’ammirazione che proviamo verso il gruppo target ci motiva ad un azione cooperativa e di aiuto e assistenza, e, se ritenuto necessario, di difesa;
Bassi livelli di calore e di competenza identificano un pregiudizio di disprezzo: è una forma di pregiudizio del tutto negativa e distruttiva, rivolta nella maggior parte dei casi a fasce deboli stigmatizzate (senzatetto, poveri, omosessuali, molti gruppi etnici, etc…), talvolta con l’intento di deumanizzare il target, che provoca disprezzo (o disgusto, nel caso unico degli omosessuali, come ha evidenziato la letteratura) e strategie di attacco.
Il pregiudizio di invidia è determinato da una percezione di basso calore ma di alta competenza e, come ben esplicitato dal nome, genera un sentimento di invidia verso il gruppo stereotipizzato, che viene visto come iper-competente da una parte, ma anche freddo e distante, generando invidia sociale: esempi di vittime di questa forma di pregiudizio sono storicamente gli ebrei, le femministe o più recentemente gli asiatici, che vengono mal sopportati e trattati con un’accettazione passiva e insofferente o che possono essere colpiti da forme varie di danneggiamento sociale.
L’ultima forma di pregiudizio è di tipo paternalistico, caratterizzata da un sentimento di pietà e di assistenzialismo nei confronti di gruppi che sono percepiti come scarsamente competenti ma dotati di un alto valore di calore: gli anziani o i disabili muovono nell’immaginario comune un sentimento di pietà che porta le persone ad azioni di tipo protettivo nei migliori dei casi, ma anche di abbandono sociale.
L’AMBIVALENZA NEL PREGIUDIZIO
Le ultime due forme discusse rientrano nella categoria dei pregiudizi ambivalenti, poiché presentano all’interno del Modello un valore positivo in una delle due dimensioni.
Il pregiudizio ambivalente, presentando contemporaneamente aspetti valutativi sia positivi che negativi verso il bersaglio, permette di discriminare il gruppo vittima senza apparire tuttavia pregiudizievoli; la componente positiva maschera infatti la controparte negativa e giustifica così azioni discriminatorie: nel pregiudizio paternalistico, ad esempio, la quota valutativa positiva può giustificare un tentativo di subordinazione, che viene però camuffata come forma di cura o aiuto rivolta ai gruppi considerati “non competenti”, mentre nel pregiudizio d’invidia l’esasperazione della caratteristica positiva (come l’iper-competenza) può essere usata come giustificazione per azioni di attacco.
E’ il caso tipico delle forme più moderne di pregiudizio, caratterizzate dalla (sempre più) classica formula “non ho niente contro di loro ma…“.
Marco Funaro (majin_fun)