“In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico” (da “La Migliore Offerta”, 2013)
L’estetica: che cos’è il bello?
Che cos’è il bello? Socchiudete gli occhi, agguantatevi, tiratevi su, e poi mollate la presa, lasciatevi cadere nei vostri pensieri. Soltanto allora, guardate. Davanti a voi c’è qualcosa che direste ‘bellissimo’. C’è un’onda del mare, un viso, il sole che scende tramontando – il bello naturale; c’è il David di Michelangelo, una villa ottocentesca, un ritratto – il bello artistico. La domanda è in sé grande: è l’arte, già, nella vita, con l’uomo che cerca di agguantarla? È, oppure, l’arte, nell’artificio dell’uomo, nell’oggetto d’arte? Se l’arte è nella vita, l’artista cerca di catturarla e riprodurla. Se l’arte è nell’oggetto d’arte, l’arte viene dalla mano dell’uomo soltanto, e arte può essere solo da questa.
È l’estetica il settore della filosofia che si occupa della conoscenza del bello, naturale o artistico che sia. Pertanto, estetica e arte sembrano distinguersi: l’estetica non studia solo l’arte, bensì il bello nella sua totalità. Eppure, quando si dice ‘arte’, spesso non lo si restringe al solo campo delle opere d’arte o degli artefatti: ‘arte’ ci appare come qualcosa di più grande, al pari dell’estetica intera. Gli artisti, ci dice Platone, sono artigiani: sono quelli che “si occupano di figure e di colori o di musica, poeti con i loro valletti, rapsodi, attori, coreuti, impresari, fabbricanti di ogni sorta di suppellettili oggetti per diversi usi”. L’arte, nella concezione antica, è mimesi, ovvero imitazione. È, anzi, imitazione dell’imitazione, in quanto poeti e pittori sono “imitator[i] dell’oggetto di cui gli altri sono artigiani”. Con Aristotele la mimesi diviene tecnica: un “saper fare”, ma anche un “saper operare”. Non si deve ridurre la mimesi all’imitazione-rappresentazione delle cose naturali, ma va intesa come un utile operare analogo a quello effettuato dalla natura stessa. Il concetto antico di arte entrerà in crisi a partire dal diciottesimo secolo, con l’affiorare delle tesi romantiche, già anticipate da Kant. Sua opinione era che l’artista gode di una totale e creativa libertà: a differenza che nella conoscenza, l’intelletto non è costrizione razionale, ma capacità di attingere al proprio gusto estetico. Per Rousseau tutta l’arte va ricondotta nell’ambito delle passioni. Ed è un po’ la concezione che ne abbiamo oggi, in linea con la teoria emozionalistica dell’arte: oggi tendiamo a circoscriverla entro le emozioni. L’arte è espressione di sé, è sentimento del pittore sulla tela, come di chi guarda alla luna con passione. L’arte è di chi carica di senso umano ciò che vede. L’arte è nel sentire.
“La Migliore Offerta”: il mistero dell’arte
Thriller di grandi passioni e riflessioni è “La Migliore Offerta” (2013), con regista Giuseppe Tornatore e protagonista Geoffrey Rush. Del resto, non risulta molto corretto etichettarlo come ‘thriller’: esso nasce con un andamento colmo di suspense, quasi fosse un horror, procede come un film sentimentale, e si conclude, infine, come un vero e proprio thriller. Tuttavia, la pellicola non appartiene a nessuno dei sopracitati generi: “La Migliore Offerta” è innanzitutto un racconto di formazione. Eppure, strano a dirsi, Virgil Oldman, come suggerito dallo stesso cognome, non è granché giovane. Più che sessantenne, egli è un battitore d’aste di grande successo e accanito collezionatore. Filantropo, cupo, scorbutico, altero, Virgil ha sempre trascorso la propria vita in solitudine: mai una relazione affettiva, neanche – si vedrà nel finale – con quello che poteva apparirgli l’unico amico, Billy. Virgil è chiuso al mondo esterno: basti pensare ai guanti, emblema di tale ermetismo, e alla grandiosa collezione di ritratti di donna che ha raccolto negli anni, e che custodisce scrupolosamente in una stanza segreta. I volti delle donne sulla tela raffigurano l’unico rapporto sentimentale che Virgil ha mai ‘sperimentato’.
A rompere il vetro della campana (per citare Montale) che separa Virgil dalla realtà sarà Claire, una ventisettenne affetta, paradossalmente, da agorafobia (e per questo chiusa nella villa, di cui chiede a Virgil la “valutazione”, da ben dodici anni). Il mistero è ciò che contraddistingue il genio dal ritrattista, e come fosse un’opera d’arte, Claire, lo attrarrà fino a farlo innamorare perdutamente, pur senza mai vederla. Sarà, pertanto, il bello e il suo mistero a svegliare Virgil dal suo letargo ‘dalla vita’. Claire è l’arte nel suo mistero, è ciò che in noi, scavando, afferra il sentimento e lo porta fuori. Claire non è l’amore che completa Virgil – non andrebbe chiamato ‘amore’, ma che lo spezza. Ma non solo questo: l’amore di Virgil sembra inizialmente contraccambiato e si tramuta in relazione segreta. L’unico al corrente della vicenda è Robert, al quale Virgil si affida per restaurare un antico automa meccanico che aveva scovato nella villa. La relazione procede per il meglio, tanto che Virgil giunge a mostrare all’amata la propria collezione privata: Virgil, prima così chiuso, si apre in tutto se stesso. Ebbene, tale apertura costituirà la sua inevitabile condanna: al ritorno dalla sua ultima asta, si scoprirà derubato, ingannato da Claire, Robert e Billy. Claire gli era parsa la più grande delle opere d’arte, così densa di mistero, prima, e così bella, dopo. Altro non è che un falso. Virgil cade in un torpore dei sensi, la sua coscienza si pietrifica. In stato catatonico, verrà ricoverato all’interno di un istituto psichiatrico.
Non può, comunque, essere questo il finale: il percorso di formazione sembrerebbe interrotto, spezzato al suo culmine. O, all’opposto, sembrerebbe, riavvolgendosi, tornare al punto di partenza, con Virgil nuovamente alienato dalla realtà. Questa volta egli, lo si capisce bene, si chiude in sé non perché ha perso le opere della stanza segreta, tutti i – falsi – rapporti sentimentali della sua vita, ma perché l’unico – vero – amore si rivela un falso. Falso? Per lui non lo era mai stato: conscio di questo, senza interesse per niente di materiale, parte per Praga, dove, nel “Night and Day” di cui Claire gli aveva parlato come di un luogo per lei speciale, la aspetterà. Potrebbe trattarsi del singolo frammento di verità sfuggito nella finzione.
Il paradosso dell’arte: emozione e valore artistico, dove la conciliazione?
La conclusione del film è riassunta in due frasi, apparentemente agli antipodi: “In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico” e “I sentimenti umani, come le opere d’arte, si possono simulare”. A sopravvivere all’inganno, sono il vero senso del bello e l’emozione, che vengono, si capisce, a combaciare.
Oggi – come detto all’inizio – il fare arte lo si tende a far coincidere con l’esprimere emozioni, in linea con le posizioni romantiche di inizio ‘800. Non può, allora, che sorgere un dubbio fondamentale. Quale esso sia, ce lo suggerisce un altro aspetto importante del film: il ritratto della madre di Claire che, nonostante il suo piccolo valore artistico, Virgil si porta dietro, l’unico che rimane nelle sue mani dopo essere derubato, è quello a cui è più legato. Malgrado il suo basso pregio artistico, è il più importante, perché, caricatosi del più profondo sentimento, gli ricorda l’amata. È questo il paradosso dell’arte? Un’opera d’arte – qualunque essa sia – può, indipendentemente dal vero ‘valore artistico’, stringersi a noi enormemente. Un falso può per noi essere tutto. Tutto sta nell’emozione del momento, l’esperienza a cui si lega. E si pensi a una canzone: possiamo ritenerla un brano-spazzatura, ma ciò non toglie come possa, a ogni ascolto, rievocare in noi emozioni e sentimenti incantevoli. Pensiamo alle piccole cose che seminiamo nella nostra vita e, soprattutto, nella vita di chi abbiamo intorno: piccoli frammenti che, sappiamo, diverranno ricordi, e che, nel ricordo, si caricheranno di un senso d’emozione invalicabile.
Giovanni Lorenzetti