“Sapere Aude”, ovvero, “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto”. Questo è il motto, di origine Oraziana, ripreso da Kant nel saggio “Risposta alla domanda: cos’è illuminismo?” per delineare gli obiettivi propositivi di tale movimento intellettuale. L’illuminismo infatti, nella visione Kantiana, è l’uscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è colpevole. Ma cosa intende Kant per minorità? E in che senso è l’uomo stesso ad essere colpevole di tale situazione? Con minorità egli intende la situazione di debolezza, di deficit cognitivo nella quale vivono gli uomini a lui contemporanei, soggetti tutti alla guida delle varie “autorità” competenti in materia. Tale termine è correlato anche alla condizione di indolenza e di infantilismo dell’uomo medio dell’età dei lumi. Ma ancor più rilevante è la questione della colpa di tale condizione. La colpa non può che essere attribuita all’uomo stesso. Egli stesso infatti è stato incapace di dispiegare le sue disposizioni naturali. E poiché la responsabilità è stata sua, ora dovrà essere lui stesso ad auto responsabilizzarsi per uscire da tale condizione.

Verso una cultura democratica
In questo saggio, di estrema potenza comunicativa, Kant inizia a delineare quell’idea che prenderà in seguito il nome di ‘cultura democratica’ o ‘democratizzazione del sapere’. Nella sua prospettiva infatti, emerge la necessità per l’uomo di emancipare il suo conoscere dalle costrizioni delle varie “autorità”. Ogni membro del corpo politico non deve sottostare passivamente a quello che è il sapere dell’epoca, non deve farsi schiacciare dal peso e dalle strutture di pensiero delle autorità competenti, ma deve partecipare attivamente alla formazione del sapere stesso. Un sapere dunque che in questa visione si configura come democratico, appartenente a tutti nel possederlo e nell’esperirlo, dunque non sottoposto a logiche elitarie.

Willie Peyote e “Sindrome di Tôret”
Ma oggi che opinioni riversano su questa prospettiva proposta da Kant? Per rispondere a tale domanda possiamo collegarci alla musica di Willie Peyote, artista eccentrico e difficilmente collocabile sotto un preciso genere musicale. Nei suoi testi, in particolare nell’album “Sindrome di Tôret”, riguardo alla considerazione sull’importanza della libera opinione egli pone una valutazione negativa sulla necessità di doverlo fare in ogni situazione. La nostra società infatti è come se ci imponesse di “dire sempre la nostra”, anche in campi in cui non siamo realmente preparati. “Come qualche tempo fa, Libertà è partecipazione, ma anche il maestro vedesse in che situazione siamo adesso cambierebbe posizione, costretti a esprimere sempre un’opinione, non fai in tempo ad averne una”, ” a parte i verbi e forse l’algebra hanno tutti da insegnare, è un popolo di Alberto Angela (la gente parla a vanvera)”. Queste sono soltanto due delle tante citazioni di Willie che muovono in questa direzione. Ma il tono marcatamente polemico, che è senza dubbio presente in tutti i suoi testi, non vuole essere fine a se stesso. Dietro di esso infatti si nasconde la volontà di ripensare i confini della libertà di espressione, che molto spesso viene considerata come una libertà illimitata.

La prospettiva di Deleuze
Per non tornare troppo indietro con gli anni, può essere interessante una prospettiva delineata da Gilles Deleuze su questo piano del discorso. Nel corso universitario tenuto sull’amico e collega Michel Foucault nell’anno accademico 1985-86, egli discute con i suoi studenti una revisione della figura dell’impegno intellettuale. La proposta delineata dai due pensatori francesi è di non pensare più tale impegno in una dimensione “universale” ma “specifica”. Non c’è più posto per una struttura di pensiero onnicomprensiva di ogni situazione. Tale impegno è richiesto soltanto in una determinata situazione specifica e particolare, nella quale ci troviamo ad essere non solo soggetti ma anche oggetti dell’indagine. Da questa considerazione ne esce, portando un po’ avanti il discorso, una critica del giudizio intesa come critica del giudicare, della pretesa di giudicare sempre su qualsiasi tema.

Torniamo all’oggi
Torniamo a considerare “l’oggi” e riprendiamo Willie Peyote. La grande facilità a cui siamo sottoposti, dato l’accrescere delle piattaforme informative e comunicative, nel prendere posizione su ogni argomento, nel vivere in un dibattito continuo, sta mostrando infatti anche i limiti e i punti critici di questa democratizzazione del sapere. Uno dei risultati più palesi è un certo scetticismo verso le “autorità” competenti, ritenendo che la libertà nel potersi liberamente esprimere sia anche uguaglianza di valore del giudizio. Con tutte le sue conseguenze pratiche, come dice anche Willie: “E sei disoccupato, sei troppo qualificato, ma volendo fai il ministro senza laurea”. Tale scetticismo verso le competenze assolutamente non delineato e delineabile in una visione come quella di Kant, il quale al contrario ne sarebbe assai avverso. La grande possibilità teorica di un sapere che animi ed appartenga ad ogni individuo in definitiva deve ancora progredire nella sua attuazione. Ma la responsabilità di questo mancato avvenimento è, ancora una volta, senza dubbio nostra. Nella percezione di un’illimitata libertà rischiamo infatti di tornare schiavi dell’ignoranza. Perché spesso ci dimentichiamo che, citando nuovamente Willie, “Per dire la tua per fortuna non servono documenti, ma almeno è il caso che ti documenti, perché dire la tua non è un dovere, è un diritto, e a volte dovrebbe essere un dovere star zitto”.
Dario Montano