Secondo il fisico James Scargill, l’esistenza di vita in un universo con una dimensione in meno della nostra è assolutamente possibile. Quali sono le conseguenze di questa teoria?

Ancora una volta la fisica mette in discussione il nostro senso comune: lo studio di Scargill, portato avanti anche con il supporto del MIT (Massachusetts Institute of Technology), mette in mostra come il numero di dimensioni che costituiscono l’universo non impedirebbe necessariamente la formazione di vita biologica.
LE OBIEZIONI DEI FISICI
I fisici hanno sempre pensato che in un universo non tridimensionale la vita non fosse ospitabile per due motivazioni. In primo luogo, non era possibile giustificare la complessità che il cosmo avrebbe dovuto possedere per consentire la vita in un universo a due dimensioni, mentre invece un numero elevato di dimensioni renderebbe le leggi di Newton così suscettibili a minuscole perturbazioni da non permettere la formazione di atomi e la stabilizzazione delle orbite. In secondo luogo, i fisici erano assolutamente convinti che la teoria della relatività generale non potesse funzionare in un sistema bidimensionale, non permettendo l’esistenza della gravità. Contro quest’ultima affermazione, Scargill è riuscito a mostrare come un campo gravitazionale molto semplice e totalmente scalare possa esistere e funzionare in due dimensioni.

COMPLESSITÀ IN DUE DIMENSIONI
Per giustificare invece l’emergere di strutture sufficientemente complesse per garantire la vita in un sistema bidimensionale, Scargill ha ragionato sulle reti neurali biologiche, mostrando come queste debbano possedere essenzialmente due proprietà per funzionare: una gerarchia modulare (ovvero la possibilità che sottoreti si uniscano in reti più vaste e complesse) e un regime critico (ovvero la cui transizione tra attività alta e bassa sia distinguibile e bilanciata). Inoltre queste reti dovrebbero essere in grado di essere attraversate in pochi passaggi (una proprietà definita come “small world property“). Scargill è riuscito a mostrare come possano esistere dei modelli di connettività bidimensionali in grado di soddisfare tutte queste caratteristiche: sarà tuttavia necessario comparare questi ipotetici modelli ideali con delle rete neurali presenti negli organismi viventi per approfondire la questione.

VIOLARE IL PRINCIPIO ANTROPICO
Il lavoro di Scargill mette parecchio in difficoltà il principio antropico, secondo il quale il nostro universo è costituito in questo modo per permettere la vita e pertanto ogni teoria scientifica deve essere compatibile con la nostra personale esistenza. Insomma, la presenza di vita cosciente non è una conseguenza casuale della materia, ma il fine stesso della evoluzione del cosmo. A sostegno di questo principio molti fisici hanno fatto notare che, se alcune costanti universali possedessero un valore infinitamente minore o maggiore, la formazione di strutture complesse (e pertanto della vita) non sarebbe possibile. È indubbio che una teoria tanto radicale come quella di Scargill, nel caso sia verificata ulteriormente, debba portare ad una riformulazione del principio antropico: forse la nostra posizione all’interno del cosmo non è così privilegiata come ci piacerebbe credere.

La cosa più sorprendente è che più di un secolo fa qualcuno anticipò la teoria di Scargill, seppur in forma letteraria e non scientifica: mi riferisco al meraviglioso romanzo “Flatland: A Romance of Many Dimensions” di Edwin Abbott Abbott scritto e pubblicato nel 1884, il quale descrive un mondo bidimensionale chiamato appunto Flatland. Pertanto mi pare opportuno condividere un meraviglioso estratto del romanzo: “Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un essere come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. […] Eppure nota la sua soddisfazione totale, e traine questa lezione: che l’essere soddisfatti di sé significa essere vili e ignoranti, e che è meglio aspirare a qualcosa che essere ciecamente, e impotentemente, felici.”
Edoardo Bramini