Due grandi personaggi letterari (e poi cinematografici) vittime del loro stesso inganno: quando il doppiogioco ti trasforma in ciò che fingi di essere

I Forgot To Remember To Forget. S’intitolava così un pezzo Rockabilly registrato da Elvis ‘The Pelvis’ Presley nel 1955 per la Sun Records. Un brano che in realtà poco ha a che fare con nazisti o scuole di magia, ma che insiste comunque sul tema qui tanto determinante della rimembranza. O meglio della dimenticanza. O meglio ancora, di come i due opposti siano strettamente collegati. Ma mentre la nenia di Elvis lo riporta di fatto al punto di partenza giacché, dimenticandosi di ricordarsi di dimenticare, è come se non avesse mai dimenticato – se non ci state capendo niente è segno che siete ancora sani – diversa è la storia per i due protagonisti di questo racconto: l’aspirante Professore alla Cattedra di Difesa Contro le Arti Oscure della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, tale Severus Piton – nomen omen– e un personaggio vonnegutiano cui lascio l’onere e l’onore di presentarsi in autonomia. “Mi chiamo Howard W. Campbell, jr. Ho fama di nazista, sono americano di nascita e apolide per inclinazione naturale”. E non sbaglio a parlare qui di racconto. Non di certo quello firmato ‘J.K. Rowling’, né ‘Kurt Vonnegut’. No, il racconto cui mi riferisco ha un sapore molto più ordinario, quasi familiare, per il quale però è necessario fare una bella premessa a scanso di equivoci: “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Tutti i diritti sono riservati”. Una storia che sì, nella sua messa in scena, può esser stata influenzata dagli escamotage narrativi di Vonnegut, ma che si raccoglie attorno a un oggetto talmente insignificante, che scomodare un luminare della fantascienza per raccontarla parrebbe voler scherzare. Inizia con una brocca.

Severus Piton spiegato a mia figlia
Correva l’Anno. Un Professore di Matematica che sembra la copia sputata di Erwin Schrödinger si presenta nella sua classe di primo liceo scientifico portandosi dietro una brocca piena d’acqua, e già questo è strano. Dovrà parlare per due ore, certo. Gli si seccherà la gola, certo. Vorrà bere fra una pausa e l’altra, certo. Ma una brocca di vetro sulla cattedra di un liceo non s’era mai vista. Men che meno una su cui è stampato in bella vista lo stemma di una delle quattro casate di Hogwarts. Forse Grifondoro, forse Tassorosso, Serpeverde no di certo. La memoria cerca di andare indietro nel tempo per ricordare quale fosse delle quattro, ma sono passati degli anni nel frattempo, durante i quali il Professore ha continuato a esternare la sua passione per la saga di Harry Potter e per i suoi protagonisti – arrivando persino a scriverci un saggio – nella speranza di farla ereditare anche alla sua prole. Fin quando, come un fulmine a ciel sereno, una delle figlie lo fredda con le parole: “Piton è cattivo”. Urge un intervento tempestivo. Un congresso viene indetto per dirimere il problema. Lui sosterrà il fronte pro-Piton, lei quello avverso.

La voce si sparge, e l’amico di un amico di un amico del tizio che pare Erwin Schrödinger si fa venire una pulce nell’orecchio. Piton cattivo? Questa è buona! Perché tutti sanno che Piton ha fatto quello che ha fatto solo per ingraziarsi Colui Che Non Deve Essere Nominato. Anche se poi – che c***o – lo possiamo anche scrivere che si chiama Voldemort. Piton si è macchiato delle peggiori malefatte, arrivando a uccidere il Preside Albus Silente, l’uomo che più si fidava di lui, solo per proteggere il figlio orfano della donna amata senza esserne corrisposto, Lily Potter. E ha infine sacrificato la propria vita in nome di una bugia, per evitare che la Bacchetta di Sambuco cadesse nelle mani sbagliate. Piton faceva insomma il doppiogioco fin dall’inizio, cos’altro c’è da discutere ancora? Ma l’amico dell’amico etc. mette chiarezza: non è questione del perché Piton abbia assunto la veste del cattivo sotto mentite spoglie, ma in cosa questa veste l’abbia trasformato. Del perché in molte situazioni – anche laddove non richiesto ai fini della sua menzogna – abbia spinto questa sua apparente povertà d’animo alle estreme conseguenze. Se insomma sia uscito ‘illeso’ dalla sua ombrosità esasperata, o se invece questo gli sia costato più di quanto la propria anima potesse permettersi.
Lo spionaggio rende schiavi
“Questo è l’unico dei miei racconti di cui si conosca la morale. Non è una morale meravigliosa, non credo; si dà soltanto il caso che io sappia di quale morale si tratti: noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere”. E’ quanto scrive Kurt Vonnegut nell’Introduzione redatta nel 1966 per un romanzo scritto cinque anni prima dal titolo Madre Notte – preso in prestito da un passo del Faust di Goethe. Un’opera massicciamente ispirata dalla figura di Adolf Eichmann, grigio burocrate considerato invisibile giostratore della macchina dello sterminio nazista, e per questo fatto rapire dal Mossad dopo anni di latitanza per essere condotto in Israele, dove sarebbe stato condannato a morte – unico caso in tutta la Storia dello Stato sionista dalla sua fondazione – in quello stesso 1961 che diede i natali allo scritto di Vonnegut. Non è un caso che il protagonista del romanzo, condotto come Eichmann in Israele per essere processato in veste di figura di spicco del Ministero della Propaganda del Terzo Reich, venga alloggiato in una cella attigua a quella del gerarca nazista, concedendo a Vonnegut il piacere d’immaginare una conviviale discussione fra i due, che pure non si trovano sullo stesso piano. Perché, come spiega Campbell stesso, “per tutta la durata della guerra io fui una spia americana. Le mie trasmissioni erano un veicolo per trasmettere messaggi cifrati fuori della Germania”.

Di fronte a questa rivelazione, “il crimine del suo tempo” non appare però meno grave, avendo lui servito “troppo scopertamente il male, e troppo segretamente il bene”. E con tale solerzia, che alla domanda se egli vada considerato realmente un nazista piuttosto che un semplice doppiogiochista, l’unico uomo che conosca la sua ‘vera’ identità, l’agente americano che lo reclutò alla vigilia della guerra, gli risponde che sì, certamente era un nazista, “uno dei più fottuti bastardi che siano mai esistiti”. E per dipanare ogni dubbio, Vonnegut fa intervenire in un passo illuminante il suocero di Campbell e Capo della Polizia di Berlino: “Adesso potresti anche dirmi che eri una spia, e noi continueremmo tranquillamente a parlare. […] Sai perché? […] Perché per quanto bene tu possa aver servito il nemico, per noi hai fatto di più. Mi rendo conto adesso che quasi tutte le idee che ho in testa, non vengono da Hitler, non da Goebbels, e nemmeno da Himmler… vengono da te”. E si ritorna così a Piton, poi a Campbell, poi ancora a Piton. Personaggi non così distanti persino nella natura ‘ariana’ della loro menzogna – se si pensa allo scenario cui si assiste dopo la morte di Silente nel Ministero della Magia, tutto intento a pubblicare libelli razzisti contro babbani e mezzosangue in favore della purezza del sangue magico. Quindi ancora Piton, Cambpell, Cambpell e Piton, per tornare infine a quel lucidissimo Incipit dell’Introduzione del ’66 che vien quasi da considerare sprecato per una prefazione, e che ci mette in guardia dall’uscire di scena come Cambpell, con il suo sberleffo finale, la sua alzata di spalle definitiva.
“Lei è il male allo stato puro”. “Grazie”, dissi.
Carlo Giuliano