Una sentenza che pare dare ragione al motto che spesso passa inosservato tra i vari regimi del mondo: La legge è uguale per tutti.
Il governo siriano, infatti, è stato condannato a risarcire la famiglia di Marie Colvin per una cifra di circa 300 milioni di dollari. A questi si aggiungono 11.000 dollari per le spese funerarie.
Marie Colvin, corrispondente di guerra pluripremiata per il Sunday Times, è rimasta uccisa a Homs, nel 2012, durante un raid aereo da parte delle forze di Assad. Insieme a lei, ha perso la vita anche il fotografo francese Remi Ochlik. Le gesta della reporter sono state raccontate nel recente film “A Private war“. Il film, nominato in più categorie ai Golden Globe, è stato acclamato per l’iper-realismo utilizzato per descrivere la vita di una delle corrispondenti più “avventurose” del ventunesimo secolo. Ma dietro alla pellicola, vi è il realismo vero e proprio, quello che spesso passa inosservato. Stiamo parlando delle condizioni di vita di uno dei lavori più rischiosi del nostro periodo storico.
Un lavoro coi suoi difetti
80 giornalisti uccisi, 348 incarcerati e 60 tenuti in ostaggio: queste sono le stime del 2018 uscite nel rapporto di “Reporter senza frontiere”. Si tratta di dati preoccupanti, con cifre in aumento e con sempre meno attenzione mediatica. A favorire un tasso sempre più elevato di vittime tra i corrispondenti di guerra, vi è banalmente un fattore importante: il miglioramento dei trasporti e della velocità di informazione.
Non va sottovalutata, infatti, la possibilità di raggiungere pressoché ogni parte del mondo, prenotando semplicemente il volo online. La stessa Marie Colvin trovò estremamente semplice l’ingresso i territorio siriano. Malgrado le minacce del regime di Assad verso chiunque tentasse di entrare nel paese, bastò prenotare un volo per il confine, ed entrare nel territorio a bordo di una motocicletta. Stando alle fonti ufficiali, le forze governative avrebbero volutamente bombardato il terreno su cui erano presenti i fotografi e i reporter, a Homs. Ma malgrado il tentativo di togliersi ogni responsabilità, dimenticarono un dettaglio importantissimo: Paul Conroy. Fotografo anch’egli, e fidato compagno della Colvin, Conroy ha subito rigettato la descrizione degli eventi fornita da Assad, dando il via al processo giudiziario che si è concluso ieri.
Se l’è andata a cercare
Così, in sostanza, il governo siriano si è giustificato per l’uccisione della Colvin. “Essendo entrata illegalmente nel paese, è lei stessa responsabile per ciò che le è accaduto”. Dietro a queste parole, è sempre più evidente come il mestiere del reporter sia sempre più difficile da essere sostenuto. Ma soprattutto, come lo stesso mondo occidentale sia non solo vittima, ma anche carnefice.
Con lo sviluppo maniacale delle “fake news” e col bisogno di star dietro incessantemente a informazioni dal mondo che viaggiano alla velocità della luce, si è andati sempre più a perdere il senso della realtà. Quello stesso senso portato avanti dagli inviati sul campo, che, privi di connessione wi-fi, si concentrano sulla reale velocità umana: quella che può prendersi del tempo a cercare fonti e a documentare quanto vede di persona.
Con una sentenza che, per la prima volta, mette spalle al muro il governo di Assad, la famiglia Colvin si è detta “lieta per il fatto che finalmente giustizia è stata fatta”. Ma sono ancora in molti a portare avanti l’impiego del reporter di guerra. Così come sono ancora molti i regimi che, complice la sempre minore importanza che si dà al lavoro sul campo, possono agire indisturbati contro chi, semplicemente, si impegna a narrare la verità dei fatti.