Donald Trump accusato d’illeciti finanziari commessi nella gestione di un Hotel a Panama. In gioco ci sono 35 milioni di danni pretesi dal querelante e l’impeachment della Presidenza USA
Anche i Presidenti nascondono i verdoni nel materasso. I Lincolns, come li chiamava Turner Cody in una canzone dal titolo Corner Of My Room (2008), riferendosi al faccione smunto di Abraham Lincoln stampato sui biglietti da cinque dollari. E’ quanto emerso da un articolo del New York Times su un procedimento intentato contro l’attuale Presidente USA Donald J. Trump per presunti illeciti finanziari perpetrati dalla società cui fa capo, la Trump Organization. D’altronde il tycoon non è nuovo a questo gioco, con la redazione newyorkese fattasi portabandiera di una strenua opposizione nei suoi confronti fin dai tempi della candidatura alla Presidenza, arrivando addirittura a definirlo “un essere umano ripugnante”. Già da tempo il giornale si era interessato ai punti più oscuri delle finanze del Donald, avviando un’inchiesta per dei presunti raggiri perpetrati da Trump senior nei confronti del fisco per permettere al figlio di ereditare la sua fetta di tesoretto senza che questo fosse soggetto alla tassa patrimoniale che ne avrebbe assorbito il 55%, spuntando un ben più gustoso 5% di tassazione. Eppure l’indagine, smentita dai Trump, cadde nel dimenticatoio e non portò ad alcun procedimento penale. Temporanea ‘impunità’ cui gli eventi di Lunedì scorso hanno impresso una svolta, quando il cipriota Orestes Fintiklis, azionista di maggioranza di un JW Marriott a Panama, già Trump Ocean Club International Hotel & Tower, ha depositato presso il Tribunale di Manhattan una denuncia per evasione fiscale nei confronti di Trump, pretendendo che gli vengano riconosciuti 35 milioni di dollari di danni.
Paese che vai, tasse che trovi
Facciamo un po’ di chiarezza sulle posizioni delle due parti in causa. Da un lato abbiamo la Trump Organization, che aveva ottenuto l’Hotel panamense in gestione fin dalla sua apertura nel 2011, e avrebbe dovuto mantenerla per ben vent’anni. Ma già nel 2017, Fintiklis aveva intentato una causa nei confronti del tycoon per sottrargli la gestione dello stabile, unica roccaforte del suo impero immobiliare in America Latina, sostenendo che lo stesse portando alla bancarotta a causa della sua incompetenza, e affidandone quindi il controllo al marchio Marriott. Ma il cipriota non si è accontentato di questo. Ricevuta la notizia che le autorità panamensi hanno riscontrato delle irregolarità nella gestione dell’Hotel da almeno un anno, e resosi forse conto che la tanto millantata castroneria nella gestione degli affari nascondesse una ben più grave malizia, Fintiklis ha presentato l’esposto pretendendo una cifra a sette zeri per risarcire i danni d’immagine e di connivenza inconsapevole causati dagli illeciti di Trump. Non solo questi avrebbe falsificato i libri contabili riportando cifre ben inferiori rispetto a quanto versato ai dipendenti dell’Hotel per ridimensionare la tassazione sugli stipendi del personale. Ma avrebbe anche aggirato una tassa del 12,5% prevista dall’ordinamento panamense per i capitali generati da attività locali e versati a investitori esteri.
Le accuse sono troppo fresche e per questo motivo ancora da verificare, con Trump che le definisce “completamente false” e la sua organizzazione che potrebbe aver ottenuto un’esenzione sulla tassa che Fintiklis denuncia come aggirata. I legali di Trump ribaltano inoltre le accuse, sostenendo che la responsabilità della gestione delle tassazioni sarebbe dovuta spettare ai proprietari dell’Hotel come precedentemente pattuito in un accordo internazionale vincolante, e che quindi le accuse di Fintiklis rappresenterebbero una mossa per “distrarre dalle sue stesse frodi e violazioni”. Ma la logica vuole che dove c’è fumo c’è fuoco, e laddove il piromane si rivelasse effettivamente il magnate cipriota, non si capirebbe perché avrebbe dovuto mettere in luce delle irregolarità che porteranno senz’altro gli inquirenti a indagare in lungo e il largo i conti della sua società, in vista di una causa che si prospetta senza esclusione di colpi. Una mossa suicida senza senso insomma dalla quale Fintiklis, protetto dal da quel proverbiale ‘ventre di vacca’ rappresentato dal suo impero immobiliare, avrebbe tutto da perdere e nulla da guadagnare. Cosa sono in fondo 35 milioni se confrontati alla potenziale perdita di un patrimonio miliardario che deriverebbe dalla messa in luce effettiva di quelle “frodi e violazioni” di cui parla Trump?
Tutti i conti del Presidente
Lo scandalo scatenato dal caso panamense va in realtà ad aggiungersi a una lunga lista di attacchi alle finanze del Presidente, con i Democratici del Congresso che stanno lottando da mesi con l’Amministrazione Trump per ottenere la pubblicazione sua dichiarazione dei redditi, mentre quest’ultimo motiva il rifiuto di consegnarla – nonostante la promessa fatta durante la campagna elettorale del 2016 – affermando che “agli americani non interessa”. Un’impuntatura quanto mai stridente vista l’insistenza con cui Trump, in quel lontano 2012 che vide Barack Obama rieletto per un secondo mandato contro il candidato repubblicano Mitt Romney, pretendeva la pubblicazione del libretto universitario del Presidente afroamericano per verificare il suo più che assodato luogo di nascita e dunque il suo diritto a candidarsi alla Presidenza. In un’intervista al David Letterman Show rimasta famosa nella quale Trump si presentava in veste di attivo sostenitore, per non dire consigliere di Romney nella sua corsa alla Casa Bianca, con una mossa a dir poco ricattatoria Trump impose un ultimatum a Obama offrendogli, dall’alto del suo rigonfio portafogli, cinque milioni di dollari da donare in beneficienza in cambio della pubblicazione del suo libretto. Se Obama non l’avesse fatto entro i tempi pretesi, “l’American Cancer Society o la ricerca sull’AIDS” non avrebbero ricevuto i fondi promessi da Trump, e le vite che la donazione avrebbe potuto salvare sarebbero ricadute sulle spalle del Presidente uscente. Vien da chiedersi quali siano i limiti fra queste modalità e quelle tipiche di un rapimento con riscatto.
Nella stessa intervista, intuendo in modo a dir poco profetico le intenzioni di Trump, Letterman invitava quest’ultimo, in anticipo di quattro anni rispetto al resto del mondo, a tenersi lontano dal ginepraio della politica con le parole: “Non vuoi fare il Presidente”. Poche battute dopo, di fronte alla domanda del giornalista se la vittoria di Romney avrebbe potuto imprimere una svolta alla preoccupante situazione economica nella quale versavano gli USA nel 2012, Trump rispondeva con un pluralis maiestatis che poco aveva di lapsus freudiano: “Penso che possiamo”. Quattro anni dopo, la Storia si ripete con Trump. Ma mentre Obama non era affatto tenuto per legge a rendere pubblico il suo libretto universitario, il nuovo Presidente lo è senz’altro per quanto riguarda la sua dichiarazione dei redditi – anche Romney a suo tempo aveva proclamato lo stesso rifiuto – o almeno secondo quanto previsto da una legge risalente al 1924 cui i Democratici si starebbero appellando per portare Trump in giudizio casomai si radicasse nel suo netto rifiuto. Una bega che potrebbe portare Trump nella direzione del tanto temuto impeachment. Equivalente statunitense delle nostre giunte nominate per decidere sull’autorizzazione a procedere in caso di violazioni perpetrate da parte di alte cariche dello Stato – si veda in Italia il recente Caso Diciotti – l’impeachment può essere votato dalla Camera dei Rappresentanti per sottrarre l’incarico finanche a un Presidente nel caso in cui questi si renda colpevole, secondo quanto disposto dalla Costituzione, di “tradimento, corruzione o altri crimini e misfatti” (Articolo II – Sezione 4). Sull’interpretazione del terzo punto, ovvero su quali illeciti siano inseribili nel vasto e generalissimo insieme degli “altri crimini e misfatti”, la giurisprudenza statunitense è nettamente divisa fra una visione più estensiva – di solito applicata nella messa in stato d’accusa del funzionario – e una più restrittiva – cui spesso si appella il fronte della difesa dell’imputato stesso – ed è dunque molto difficile prevedere se eventuali incongruenze riscontrate dai Democratici nella dichiarazione dei redditi di Trump possano portare a impeachment più di quanto non possa fare il caso panamense.
E’ quanto sostiene il New York Times, che vede in quest’ultimo soltanto un potenziale danno agli affari internazionali del Trump imprenditore, e solo nelle prime l’occasione di detronizzarlo dal suo posizione alla Casa Bianca. Eppure il Times nella sua grande lungimiranza non tiene conto di un caso apparentemente lontanissimo, ma che i prossimi avvenimenti potrebbero trasformare in parallelo perfetto del procedimento aperto dal Tribunale di Manhattan: il Caso Lewinsky. Nel lontano 1999, il Presidente democratico Bill Clinton si salvò per miracolo da un procedimento d’impeachment intentato nei suoi confronti per il famoso scandalo del Sexgate, che aveva fatto emergere i numerosi rapporti sessuali consumati nella Casa Bianca dal Presidente con l’allora stagista Monica Lewinsky negli intervalli fra le riunioni. Ciò che passò alla Storia come il famoso ‘pompino sotto la scrivania dello Studio Ovale’ non avrebbe mai potuto gettare gli estremi per un procedimento di tale gravità – per il semplice fatto che l’adulterio, per quanto immorale possa apparire, non costituisce illecito – se non fosse che Clinton negò sotto giuramento il coinvolgimento sessuale con la Lewinsky, rendendosi quindi colpevole del reato di spergiuro, considerato nella ferrea mentalità statunitense come un vero e proprio tradimento della Nazione, visto che il Presidente è tenuto a giurare sulla sua Costituzione. Allo stesso modo, se prevedibilmente Trump si dichiarerà in tribunale – e dunque sotto giuramento – innocente di fronte alle accuse che gli vengono rivolte, e se poi quelle stesse accuse si dovessero rivelare fondate, si aprirebbe la strada a un probabile impeachment dal quale il Presidente potrebbe, per la prima volta nella Storia degli Stati Uniti, uscirne affatto indenne. In fondo, se un misero pompino ha rischiato di affossare uno dei Presidenti USA più popolari della Storia recente, Dio solo sa cosa potrebbe significare un illecito finanziario per la carriera di uno dei più invisi al Congresso.
Solo chiacchiere e distintivo
Ne sa qualcosa uno dei più celebri e sfuggenti criminali nella Storia degli Stati Uniti d’America. Non di pompini ovviamente. Per carità, anche quelli magari. Ma piuttosto sa più di ogni altro quanto una semplice accusa di evasione fiscale possa incidere sulla ‘carriera’ di un uomo. L’uomo in questione è ‘Al‘ Capone, nato Alphonse Gabriel a New York nel 1899 e divenuto uno dei malavitosi più ‘produttivi’ Chicago e dell’intera Nazione grazie all’occasione fornita la legge sul Proibizionismo in vigore fra il 1920 e il 1934, che gli permise indirettamente di per avviare un florido giro di contrabbando e vendita illegale di alcolici, cui si aggiungevano molte altre attività illecite come bische clandestine e bordelli. Ben presto, l’incontrollabile ondata di omicidi e regolamenti di conti fra bande di cui Capone si fece mandante per ottenere il monopolio sul controllo della malavita organizzata di Chicago, spinse le autorità, e in particolare J. Edgar Hoover a porre il malavitoso in cima alla lista dei Most Wanted dell’FBI, dichiarandolo quindi Nemico Pubblico Numero Uno. Ma Capone si dimostrò inizialmente abile giocatore, mascherando le proprie responsabilità, minacciando le giurie e corrompendo i poliziotti. Nemmeno il Massacro di San Valentino del 14 Febbraio 1929, uno dei più sanguinosi regolamenti di conti nella Storia americana, ordito da Capone per sgominare l’intera fetta irlandese della malavita locale, valse a incastrarlo. Sarebbero dovuti passare quarant’anni prima che la testimonianza di un ex mafioso potesse collegarlo alla strage.
Così l’FBI mise su una squadra d’Intoccabili – la stessa che avrebbe ispirato l’omonimo film di Brian De Palma risalente al 1987 – con l’idea di colpire Capone dove avrebbe fatto più male e dove meno se lo sarebbe aspettato: nel conto in banca. In questo campo il mafioso si fece trovare impreparato, forse perché anche a lui si sarebbe potuta applicare quella buona vecchia formula coniata dal democratico James Carville proprio in occasione della campagna per la presidenza combattuta fra Clinton e Bush senior nel 1992: “It’s the economy, stupid“. A voler intendere che quando si va a toccare il delicato tasto della finanza, solo i migliori ce la fanno, solo i più furbi la sfangano. E Capone sveglio era, ma non abbastanza. Perché la condanna a 11 anni di carcere emanata il 17 Ottobre 1931 che riuscì infine a togliere di mezzo il Gangster dei Gangster spedendolo [quasi] per direttissima a marcire ad Alcatraz, non prese in esame le innumerevoli estorsioni, rapimenti e omicidi di cui si era fatto mandante nel corso di un’intera decade, ma un’accusa per evasione fiscale formulata grazie a un’indagine degli Intoccabili nei conti e nelle transazioni finanziarie dei soci di Capone. E’ così anche per Trump potrebbero valere, mutatis mutandis, le parole pronunciate in riferimento a un lontano gemello del Presidente USA, Silvio Berlusconi, nel film di Diego Bianchi Arance e martello (2014): “Non s’è dimesso ca’a crisi, coi processi, co ‘e mignotte”, ma forse a funzionare sarà un misero 12,5% evaso.
Carlo Giuliano