E, stando alle parole di Feurbach, se accettiamo l’idea dell’uomo in quanto essere pensante e fecondo di idee, un’unità che lo riguardi è da escludere a priori. Il dualismo tra mente (e anima, se si vuole) e corpo è stato ed è oggetto di studio di filosofi e scienziati. Nel corso di un esperimento pertinente, un gruppo di neuroscienziati dell’Università di Yale ha ripristinato parte delle funzioni circolatorie e cellulari di un cervello di maiale, a quattro ore dal decesso dell’animale. Tuttavia, non sono stati osservati segnali elettrici riconducibili ad una normale funzione cerebrale, né tanto meno un ripristino della coscienza: ciò che l’esperimento ha regalato è un ulteriore spunto di riflessione sulla questione, circa l’effettivo rapporto dicotomico.
Il dualismo mente-corpo in filosofia: Platone e il Fedone
Nel corso della storia della filosofia, il primo ad aver individuato una dualità e un rapporto intrinseco tra mente, o meglio, tra anima e corpo è stato Platone: l’anima è un soggetto immortale e ha sede nell’Iperuranio, è dunque esistente prima che un corpo ne costituisca l’involucro terreno, ne è cuore pulsante, elemento fondamentale e imprescindibile. La materialità corporea è un peso per l’anima, sebbene le parti siano tenute insieme da sensazioni di piacere e di dolore (persistendo sul dualismo tipico della filosofia platonica): è la morte a liberarla e a scioglierla da tale vincolo, costituendo la separazione che porta al divorzio dalle passioni e all’ascesi verso la vera conoscenza. Platone era profondamente convinto dell’immortalità dell’anima e ciò rendeva meno spaventosa la morte: se è vero che le nostre anime, a dir del filosofo, esistevano, dunque, ancor prima di assumere forma umana, separatamente dai corpi, ed erano dotate di intelligenza, ne consegue che sia necessario ammettere l’esistenza di un’anima immortale, che ciclicamente acquisisce un corpo mortale. Proprio il Fedone è la storia di una morte, quella di Socrate e, al contempo, il racconto della nascita della metafisica occidentale, secondo la quale, da questo momento in poi, il mondo non costituirà mai il tutto.
Oltre al terreno, oltre all’orizzonte del visibile, la metafisica afferma l’esistenza (e la necessità) di una realtà ulteriore, ultraterrena: ma sul confine del mondo, dinnanzi all’invisibile, si consuma anche lo scacco estremo di ogni esistenza, quello del dramma della morte. Per Platone, la morte di Socrate costituisce un’occasione per costruire un discorso diverso da quelli della religione, dell’arte o della scienza, che non si limita a inaugurare un modo nuovo di parlarne, ma tocca cautamente l’immediato successivo, che si parli di mente, di anima o di mera sopravvivenza di idee, per cui oggi noi siamo ancora qui a parlarne. Dopo il Fedone, la morte non potrà più essere, per il pensiero, qualcos’altro a cui pensare, un pensiero particolare, un determinato oggetto del pensiero: la morte, piuttosto, si porrà insieme al pensiero. Ogni pensiero è, in quanto tale e prima di ogni altra cosa, pensiero della morte stessa. Dopo il Fedone, non si cessa di pensare alla morte che cessando di pensare. D’innanzi alla morte, il pensiero incontra, allo stesso tempo, la sua libertà e la sua prigionia, la forma del suo rimedio insieme alle ragioni della sua malattia. Orientandosi verso queste vie, la filosofia, da questo momento in poi, non costituirà altro se non un’esercitazione al morire e all’essere morti, instaurando, anche solo in questo modo, un legame indissolubile tra pensiero e assenza di pensiero, tra mente e corpo, tra immateriale e immateriale: è il prezzo che il pensiero dell’uomo deve pagare per affrontare e accettare l’ineluttabilità della morte. Il Fedone si presenta come una meditatio mortis, per cui chi ci si addentra viene investito da un coinvolgimento esistenziale, poiché in esso Platone ha costruito il paradigma dell’apparire e dello scomparire, continuando a giocare su un dualismo di presenza e assenza come manifestazione dell’essere e del nulla. Reinventa il concetto di morte, neutralizzandone la drammaticità, ponendolo in relazione al nulla: prendendo le mosse dalla superiorità dell’anima sulla corporeità, presenta la morte come nientificazione, sottolineando che ci sembra di vedere ciò che in realtà non appare, poiché essa non è altro che un’elaborazione che l’uomo effettua attraverso il lutto. L’io è e non è quell’altro che la somiglianza cadaverica induce (proprio nel finale del Fedone, Socrate ironizza su questo concetto rivolgendosi a Critone, sostenendo che colui che egli vede nel momento in cui parla non sia lo stesso che vedrà in sembianze cadaveriche di lì a poco). Se ritorniamo al concetto di corpo come involucro materiale dell’anima, possiamo ammettere l’idea di una morte inaccettabile, ma solo in quanto morte particolare, cioè morte di un individuo corporeo, fisicamente unico e irripetibile. Tuttavia l’opera, cuore della filosofia platonica, non manca di contraddizioni. Qualsiasi cosa che abbia un contrario non si genera che dal suo contrario, ma la generazione di un contrario a partire dall’altro contrario è accettabile a condizione che si intendano entrambe le parti come relative: Platone ammette come unico attributo dell’anima la sua immortalità, sfugge, quindi, a qualsiasi tipo di divenire o di impiego logico relativo. Nel corso del dialogo, Socrate (che si fa portavoce delle teorie platoniche) non si chiede mai se l’anima sia qualcosa o che cosa essa sia, ma si limita ad utilizzarla come supporto indeterminato per la predicazione dell’immortalità: essa compare, piuttosto, in negativo, secondo un modello di inversione funzionale rispetto alle istanze corporee delle sensazioni, di cui costituisce la controparte. Si conviene, di conseguenza, che prima di decidere se un predicato possa essere o no attribuito a qualcosa, sia necessario interrogarsi sulla natura essenziale ed esistenziale di questo qualcosa. In conclusione, il Fedone si presenta come l’opposizione fra due possibilità d’esistenza della nostra anima, in quanto esistenza corporea ed esistenza incorporea, come opposizione fra l’autentico e l’inautentico, caratterizzata in quanto distinzione del puro e dell’impuro, del preciso e dell’impreciso, costruendo una serie di dualismi che convergono in quello tra corporeo e incorporeo.
After Life (2010)
Una trasfigurazione visiva del pensiero platonico ci viene regalata dalla settima arte, dalla regista polacca Agnieszka Wojtovicz Vosloo. After Life, con Christina Ricci, Liam Neeson e Justin Long, è giocato sul filo dell’ambiguità e sviluppa a più livelli il tema della paura della morte e della vita. Dopo un terrificante incidente d’auto, Anna si sveglia sul letto di un obitorio, mentre Eliot, direttore delle pompe funebri, sta preparando il suo corpo per il funerale. Confusa e spaventata, Anna non crede di essere morta ma Eliot le spiega che il suo stato è una sorta di limbo tra la vita e la morte. In trappola, senza nessuno a cui chiedere aiuto, Anna è costretta ad affrontare le sue paure più profonde.
Anna non ha mai realmente vissuto, per cui si aggrappa al rifiuto della morte come fosse la sua unica, ultima occasione di vivere e, in un certo senso, le cose stanno proprio così, dal momento che in questa ultima fase avrà l’occasione di rivedere le sue scelte e la sua vita, e scoprire cosa realmente avrebbe voluto. Eliot si occupa del suo corpo, ma in realtà anche del suo spirito, parlandole, rassicurandola e preparandola a quello che la aspetta. Quello a cui nessuno è mai pronto è, infatti, la rinuncia ai propri sogni e ad una vita che non è stata quello che ci si aspettava: i rimpianti di Anna sono molti e si oppone al suo aggrappandosi a tutto ciò che non ha fatto in vita. Di qui lo spunto di riflessione che ci conduce, per certi versi, al pensiero platonico: se ci occupassimo di coltivare l’essere, in accezione astratta, piuttosto che l’essere in senso materiale, in che modo ne gioveremmo, considerando il contesto storico-sociale in cui siamo immersi? Ma sopratutto, quanto l’uomo può scindere sensibilità e corporeità? E anche in questo caso, quali sarebbero le conseguenze?
Valeria Parisi