Il dolore nell’età della tecnica: la prospettiva nietzschiana dell’ultimuomo nel drammatico universo di Melancholia

Istantanee su una bellezza morente e annichilita, echi di suggestioni pittoriche e Romantiche, clima di disperazione e tanta, tanta filosofia. Questo e molto altro nel secondo capolavoro della trilogia della depressione di Lars von Trier che risponde al nome di Melancholia.

Melancholia, pluripremiato film del 2011 scritto e diretto dal regista danese Lars von Trier, interpretato magistralmente da Kristen Dunst, Charlotte Gainsbourg e Kiefer Sutherland. Seconda pellicola del regista ad aderire alla trilogia detta “della depressione” la quale affronta i difficili momenti trascorsi dallo stesso durante la sua lunga crisi depressiva, rappresentati per mezzo di allegorie e una metafisica artistica.

L’opera, pur mancando di continuità narrativa, si configura come seguito ideale del discorso intrapreso nel precedente Antichrist (oggetto d’analisi nel mio precedente articolo), restituendo agli spettatori un nuovo punto di vista sulla natura e sul senso dell’esistenza non più – solo – crudele e doloroso, ma fortemente disilluso, arreso alla disperazione.

Fatte le dovute premesse, procediamo ora alla lettura dell’opera.

 

Melancholia

La pellicola si compone di due capitoli dedicati ai personaggi principali della narrazione: le sorelle Justine e Claire. Analogamente ad Antichrist, i capitoli sono comprendenti rispettivamente di un prologo aulico, overture ideale e archetipica dell’intero racconto, e di un epilogo.

Parte 1: Justine

Veniamo allora introdotti da una prolusione ove ci vengono mostrate le scene conclusive del film attraverso un intenso susseguirsi di immagini sconnesse dal sapore fortemente drammatico. Ecco ora il volto stanco di Justine, dal tenue e cereo carnato; alle spalle di lei, cadono morti come foglie gli uccelli, simboli del mortifero appassire di quella genuina e sognante leggerezza propria dell’idealismo. In un lento succedersi di pittoresche astrazioni che regalano suggestioni dagli echi Romantici, ci viene mostrato il pianeta Melancholia, dai toni cerulei che ricordano gli occhi spenti della nostra Justine, in rotta di collisione contro la Terra, tutto sul grave incedere delle note melense e sofferenti del Tristano e Isotta di Wagner.

Con queste prime sublimi immagini, Lars von Trier sana magistralmente ogni dubbio sullo sviluppo della storia, disimpegnando lo spettatore dalla suspense del finale e favorendo una lettura allegorica della vicenda: Melancholia non è un film sulla fine del mondo ma su uno stato mentale, dirà lo stesso von Trier.

Dopo lo scorcio sul vertiginoso finale del film, la narrazione prosegue in medias res: ci ritroviamo al matrimonio di Justine. Questa prima parte della pellicola abbraccia per intero i festeggiamenti delle nozze, da uno speranzoso inizio fino al loro tragico subissarsi, durante il quale assisteremo al lento e inevitabile declino psicologico di Justine, vittima di una crisi depressiva che segnerà la rovina della festa. L’indomani Justine si ritroverà sola e internamente morta.

Parte 2: Claire

Melancholia si avvicina. È con questa grave consapevolezza che esordisce il nuovo capitolo del racconto. Justine, completamente inerme, viene accolta e accudita dalla sorella. Scopriamo intanto che l’avvicinarsi del pianeta blu alimenta le inquietudini di Claire, la quale farà addirittura ricorso ad ansiolitici. Quando la fine diverrà certezza, la situazione subirà un capovolgimento: Claire cercherà conforto in Justine, la quale ha però assunto un atteggiamento di rassegnazione e gelido distacco. Quest’ultima pare essere da sempre consapevole della tragedia che ora sta per avvenire: le sue speranze sono già decadute. Assisteremo dunque ad un lento climax di angoscia che ci accompagnerà fino alle immagini dell’epilogo dove verranno ripetute le scene già viste al principio dell’opera. Justine e il giovane nipote Leo costruiranno un riparo infantile che idealmente gli offrirà protezione dalla catastrofe. Attenderanno qui con Claire la collisione dei pianeti, in un finale funesto, d’una commovente dolcezza, fatto di scene dall’immenso potere espressivo.

Un cinema Neoromantico

La Natura

Pur non essendo narrativamente collegati, Antichrist e Melancholia corrispondono alla proiezione del medesimo, osmotico universo di decadenza che tormenta fino al parossismo la mente di von Trier, ed è perciò che andrebbero fruiti consequenzialmente. Se l’opera precedente reggeva su un complesso apparato simbolico, ove la natura – mostrataci ora per allegorie, ora per inquiete suggestioni dei personaggi – fungeva da indiscussa protagonista concettuale del narrato, in Melancholia verrà marginalizzata al fine di dar rilievo ai toni psicologici e annichilenti dei personaggi. La natura restituita in Antichrist, ciononostante costituisce lo sfondo contestuale di Melancholia, passando dall’essere matrigna leopardiana fino a divenire sofferente e flemmatica compartecipante all’insensatezza dell’esistere. Essa verrà qui alleggerita da quel reticolo allegorico che aveva caratterizzato il primo film, venendo però filtrata attraverso suggestioni pittoriche e pittoresche dagli espliciti richiami alla pittura rinascimentale e dei Preraffaeliti.

L’Ophelia di Millais come Justine in una scena del film.

Il Sublime

Nel prologo assistiamo all’alternarsi di scene da tableau vivant ad immagini dell’imminente collisione di Melancholia. Più avanti nel film, per acquietare le paure di Claire scaturite dall’avvicinarsi del pianeta, il marito John – non meglio specificato uomo di scienza – si avvarrà delle parole degli “scienziati autorevoli”, concordi nel sostenere che non avverrà alcuna collisione e che anzi il passaggio ravvicinato di Melancholia regalerà uno spettacolo di bellezza immemore. Ed ecco che, nelle scene conclusive della pellicola, il lento avanzare del pianeta verso la Terra ci permette di ammirarlo, attimo dopo attimo sempre più vicino, nell’incalzante e continuo aumento di una tensione drammatica marcata dall’andamento solenne dell’opera di Wagner, che culmina e si disperde negli attimi immediatamente successivi alla collisione. E cenere alla cenere.

Anche queste memorabili scene vengono, se non desunte, quanto meno suggerite al Nostro da un concetto caro all’arte romantica: il sublime, ossia quel sentimento che scaturisce in noi quando ci troviamo di fronte a grandiosi spettacoli naturali. Esso è il vertiginoso ed estremo limite della nostra percezione di bello, confinante con lo smarrimento della nostra mente incapace di comprendere razionalmente quel che si spinge infinitamente al di là del nostro intelletto. Il sublime è, in essenza, un orrore dilettevole che ci conduce alle più alte vette del piacere e insieme ci ammonisce e ci rammenda della finitezza della nostra natura.

La vista di Melancholia provoca il sentimento del sublime, tanto a noi spettatori quanto ai personaggi del film che escludono la possibilità di una collisione con la Terra. Melancholia è allora tutto ciò che fugge la nostra raziocinante capacità di comprendere, è l’infinito intangibile che comincia laddove si esauriscono le possibilità del nostro intelletto. La sua collisione con la Terra è la castrazione fulgida del razionale.

Il Razionale

“Dopo le metafore, la farmacia. Così si sgretolano i grandi sentimenti” (Emil Cioran, Sillogismi dell’amarezza)

La depressione di Justine è la consapevolezza dell’insensatezza dell’esistenza, del fallimento della ragione. I dialoghi del film che la coinvolgono sono sordi e sterili, nessuno pare in grado di comprendere il comportamento che la spinge, lentamente, a rovinare i festeggiamenti del suo matrimonio. Questo elemento rafforza enormemente lo stato di isolamento che vien ricamato attorno al suo personaggio. Completamente diverso è il personaggio di John, il facoltoso organizzatore della festa. John è fondamentalmente un arrivista, il suo più grande motivo d’orgoglio è l’essere stato in grado di organizzare i festeggiamenti del matrimonio in un castello con un campo da golf da 18 buche, cosa che non mancherà di rammendare più volte alla sposa infastidito dal comportamento disfattista da lei assunto in piena crisi depressiva. O ancora il datore di lavoro di Justine, Jack, personaggio tra i più sgradevoli che tenterà di ottenere subdolamente dalla sposa un’idea per uno sponsor pubblicitario.

Il pensiero razionale è il pensiero della nostra epoca, ossia, il pensiero neopositivista, dei mercanti o degli scienziati: i nichilisti passivi. Il film diviene allora un atto d’accusa rivolto a quel mondo che fonda nella tecnica la sua causa primigenia, laddove la ragione, al vespro dell’intangibile, s’è spinta tanto al di sopra delle cose da giungere a reclamare finanche il cielo del firmamento, per poi avvedersi che non siamo altro che vermi striscianti sulla carogna cosmica. Dal tentativo spasmodico di conoscere una verità che si compie nella sua negazione, nasce il mondo in cui il sapere scientifico diventa un sapere teologico ma dalla teleologia inconsistente – e ancora -, dove il fine ultimo dell’esistenza è espletato nel suo buon funzionamento e in un’autoconservazione del tutto priva di scopo: un mondo destinato al decadimento.

Dopo essersi sfogata con Jack, Justine si licenzierà, mentre nel momento in cui John comprenderà che Melancholia colpirà la terra, si toglierà la vita.

Il Rifugio

L’esaltazione del pensiero irrazionale, espressione del sentimento o della fede, è un carattere fondamentale della pittura romantica. Era grazie a questo, infatti, che gli artisti potevano trovare rifugio da un presente percepito come ostile.

Nei momenti conclusivi dell’opera, vediamo Justine e il giovane nipote Leo improvvisare un rifugio di fortuna con alcuni rami, la grotta magica, ossia l’unico posto che potrà proteggerli dalla distruzione del pianeta. Salvarsi, però, non è più possibile. Trier qui, indica solo la strada che sarebbe dovuta esser percorsa.

Il rifugio di Lars von Trier, invece, è l’arte. Tanto la sua – dai connotati notoriamente catartici – quanto quella omaggiata nei suoi film. Ed è questo il messaggio che il regista cerca di mandare ad un mondo in malora, dove il decadimento dell’assurdo, dell’irreale, del metafisicosegna necessariamente il declino – in stato già avanzato – dell’arte. L’arte è morta, e noi l’abbiam confusa con le mosche che ne hanno insediato il cadavere.

Se così non fosse, il cinema di Trier non avrebbe alcun senso.

L’Ultimuomo

Voi lettori,

Avete mai sentito di quell’uomo folle che in un mattino luminoso accese una lanterna, corse al mercato e cominciò a gridare senza posa: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. – Poiché lí si trovavano riuniti proprio molti di coloro che non credevano in Dio, suscitò una grossa risata. Si è dunque perduto? disse uno. Si è smarrito come un bambino? disse un altro. Oppure si tiene nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato su una nave? È emigrato? – così gridavano e ridevano sguaiatamente. L’uomo folle balzò in mezzo a loro trafiggendoli con le sue occhiate. “Dov’è andato Dio? gridò, ve lo voglio dire! Noi lo abbiamo ucciso, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come fummo capaci di svuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci diede la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo sciolto questa terra dalla catena del suo sole? Verso dove indirizza ora il suo moto? Verso dove indirizziamo il nostro? Lontano da ogni sole? Non stiamo continuamente precipitando? E all’indietro, in alto, in avanti, da tutti i lati? Esistono ancora un sopra e un sotto? Non stiamo errando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non continua a farsi notte e sempre più notte? Non si devono accendere lanterne alla mattina? Non sentiamo ancora nulla dello schiamazzo dei becchini che seppelliscono Dio? Del fetore della divina putrefazione non sentiamo ancora nulla?. – anche gli dèi imputridiscono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoliamo noi, gli assassini di tutti gli assassini? La cosa più sacra e più potente che il mondo possedesse fino a oggi si è dissanguata sotto i nostri coltelli, – chi ci toglie di dosso questo sangue? Con quale acqua potremmo purificarci? Quali riti d’espiazione, quali giochi sacri dovremo inventare?. Non è la grandezza di quest’impresa troppo grande per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi anche solo per sembrare degni di essa? Non ci fu mai un’impresa più grande, – e, grazie a quest’impresa, è sufficiente a chiunque esser nato dopo di noi perché egli appartenga a una storia superiore a tutte le storie esistite fin qui!” – A questo punto l’uomo folle tacque e guardò di nuovo i suoi uditori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Infine scagliò a terra la sua lanterna, sicché essa andò in pezzi e si spense. “Vengo troppo presto, disse poi, non è ancora il mio tempo. Questo evento smisurato è ancora per la strada e sta facendo il suo cammino, – non è ancora entrato nelle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le imprese hanno bisogno di tempo, anche dopo che le si è compiute, per essere viste e udite. Quest’impresa è ancor sempre più lontana da loro delle stelle più lontane, – eppure l’hanno compiuta!. – Si racconta ancora che, in quello stesso giorno, l’uomo folle abbia fatto irruzione in diverse chiese e vi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e chiestagliene ragione, egli avrebbe risposto sempre e soltanto con queste parole: “Che altro mai sono queste chiese, se non le tombe e i monumenti sepolcrali di Dio?” – (Friedrich Nietzsche, Gaia scienza, af.125)

La teoria superomistica di Nietzsche, come saprete, è espressa per la prima volta nello “Zarathustra“, sebbene venga da lui anticipata e formulata già all’interno della Gaia scienza nel celebre aforisma qui riportato. Al superuomo, fa da contraltare una figura che, ad oggi, ha goduto di meno successo pur essendo ugualmente significativa all’interno dell’opus nietzschiano, ossia quella dell’ultimuomo. Questo personaggio è il deuteragonista dell’aforisma sopracitato, ed è rappresentato dagli atei al mercato che deridono l’uomo folle (che in una prima stesura era proprio Zarathustra). La morte di Dio diventa per Nietzsche, simbolicamente, la morte della fede e del pensiero irrazionale, proprio come ci suggerisce Trier. Le conseguenze della sua uccisione, però, non sono ancora comprese: “Vengo troppo presto” annuncia l’uomo folle. Ed è qui che il filosofo diviene profeta, anticipando e descrivendo un’era in cui l’uomo, dalle macerie della morale, avrebbe ricostruito una deontologia opulente, utilitaristica, subdolamente voluttuosa, invece che rinascere abbracciando il caos, riconoscendo la sua terrestrità come unica possibile trascendenza, deificandosi. “Si avvicina il tempo in cui l’uomo non genererà più stelle” , affermerà in merito, ove la terra “…è diventata più piccola e su di lei saltella l’ultimo uomo che rende tutto più piccolo”.

L’età della ragione è l’età della depressione, l’età del peggior nichilismo, la cui unica essoterica consapevolezza inconsciamente insita nell’intelletto rivela che noi no, non siam stati creati da un essere superiore, che la vita non è la tribolazione della carne volta ad un’ascesi dello spirito ove tutto acquisirà un senso, che i dolori e le sofferenze patite non verranno ricompensate a cottimo in beatitudine celeste. Noi sappiamo che siamo stati generati da un caos eterno ed oscuro, da un ciclico nulla maledicente cui siamo destinati a far ritorno. Sappiamo questo. Ed è perciò che non possiamo far altro, adesso, che cercare di vivere inseguendo un ideale di felicità – quanto più falso, tanto più vero – e fuggendo dall’angoscia della morte e di quel che comporta, sordamente consapevoli di non poter mai raggiungere la prima e augurandoci di non cadere mai carnefici della seconda, perché si sa, “…l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti”. Questa è la consapevolezza che Nietzsche prevedeva per l’avvenire e che Trier dipinge in Melancholia, questa è l’angosciante premessa della nostra modernità, questa è, in altri termini, l’età della tecnica.

Valerio Fumarola

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