La “didattica delle competenze”: il sapere fra theorìa e praxis

Col termine “competenza” si intende indicare una sintesi fra le conoscenze in senso stretto e le abilità. Per dirla in altri termini, fra il “sapere” e il “saper fare”. A questo primo e fondamentale connotato, volto principalmente a ridimensionare la dimensione meramente “contemplativa” delle conoscenze, si aggiunge una seconda e non meno rilevante caratteristica. Poiché le competenze devono essere tali da consentire di agire, e poiché l’azione non si sviluppa concretamente mai, se non in rapporto a un contesto sociale determinato, ciò che si tratta di introdurre mediante la didattica delle competenze è una più specifica attenzione alle relazioni interpersonali e sociali nelle quali si inserisce l’azione. Connettere insieme questi 3 elementi, vale a dire le conoscenze, le abilità e il contesto sociale, valorizzandone soprattutto il rapporto organico: la scuola deve quindi fare in modo che le giovani generazioni sviluppino competenze, intese come “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto”. Fin dalle origini la cultura occidentale ha sempre valorizzato il nesso organico che stringe il sapere al fare. Già le figure tradizionali dei “sapienti” antichi non avevano nulla a che vedere con lo stereotipo del filosofo isolato nel “pensatoio”. La filosofia, e più in generale la cultura occidentale, nascono come tensione ad un conoscere che non è mai fine a sé stesso, ma è sempre finalizzato ad agire, ad esempio come cittadino di una polis, e dunque come soggetto consapevole e responsabile. In questa prospettiva la didattica per competenze potrebbe essere considerata come un recupero dei fondamenti culturali della grande tradizione greco-latina. Un modo “aggiornato” per diventare cittadini di una polis i cui confini si sono dilatati, fino a comprendere il mondo intero.

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L’esercizio spirituale: la filosofia come vita

Nel nostro mondo, profondamente influenzato dal retroterra monoteistico-cristiano, la teoria tende a precedere la pratica. Questo è ovviamente causa di scissione: da una parte la filosofia e dall’altra la vita, pensiero ed essere. Per invertire questa tendenza molto possono insegnarci le filosofie antiche, dove la distinzione fra teoria e prassi è inesistente perché la teoria è la prassi. Nel mondo greco infatti la filosofia è vita, il proprio agire diventa esercizio in cui la filosofia non è che la spiegazione teorica. Pierre Hadot chiama questa costante della filosofia greca “esercizio spirituale”, espressione che contrassegna lo stretto legame fra filosofia e pratica in cui la prima è solo un indirizzo il cui fine è l’elevazione pratica. Il rapporto teoria – prassi nel pensiero antico, infatti, non è innanzi tutto di tipo funzionale o strumentale, ma è di tipo generativo e fondativo. Con Talete, Pitagora, Empedocle, il filosofo è allo stesso tempo un politico, talvolta fondatore o reggitore di città e tanto le sue teorie esplicative del mondo e della natura, quanto la sua azione pratica sono informate da un principio unificatore e fondante che conferisce senso compiuto e verità tanto alla teoria che alla prassi. In Platone la filosofia è l’uso della filosofia a vantaggio dell’uomo. Il filosofo ritorna nella caverna per risvegliare i compagni dal sonno della ragione e volgerli alla verità e all’azione, dopo la visione della realtà vera del mondo e del principio generatore ed unificatore dell’essere rappresentato dal Bene. La conoscenza teoretica sarebbe nullificata e vana, senza il suo uso, senza la prassi liberatoria a vantaggio dell’uomo.

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Il crollo della polis e della praxis

Nelle filosofie ellenistiche, venuto meno storicamente il nesso generativo tra il soggetto della filosofia e la polis, l’intreccio inestricabile teoria-prassi, comunque espresso tanto dalle filosofie presocratiche quanto in forma diversa da Platone ed Aristotele, viene rotto. La prassi perde valenza politica per assumere sempre più i connotati di tecnica etico-morale dell’individuo isolato atta a contrastare il timore della morte e la schiavitù che questo produce. Agostino poi, reinterpretando la tradizione classica della filosofia greca e romana alla luce dell’avvenimento cristiano, stabilisce un nuovo rapporto tra teoria e prassi. Se Cristo è la verità di cui per grazia si può fruire nella contemplazione partecipativa, Cristo è anchevia”. Da qui l’idea dell’azione e prassi umana come percorso, ascesi, viaggio. Con la dissoluzione dell’ordo medievale e il mutamento antropologico determinatosi con il costituirsi della società moderna le nozioni di teoria e di prassi subiscono una mutazione genetica. Esse hanno più a che fare con nozioni come certezza, esattezza ed efficacia che non con le nozioni classiche di verità giustizia e felicità. Nella filosofia moderna nasce la polarità dialettica soggetto-oggetto cui fa da pendant quella tra teoria e prassi. L’equazione baconiana tra sapere e potere può essere ribaltata senza che la logica dell’equazione subisca danni.

 

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Theodor Adorno sostiene come nell’epoca moderna, mentre il pensiero si limita alla ragione soggettiva praticamente utile allo sviluppo delle tecniche di dominio sulla natura, l’altro, l’oggetto che scivola via dalla mano della ragione, viene inevitabilmente assegnato ad una prassi sempre più priva di concetto. Adorno sostiene che una coscienza separatrice di teoria e prassi abbia come unico effetto il rendere impotente la teoria e puramente arbitraria la prassi, infrangendo la teoria mediante il “primato di origine borghese della ragion pratica”: Il pensiero così non si fa azione, né la teoria diventa la forma più consapevole della prassi. E se Socrate non sapeva nulla e operava tutto il giorno, oggi mille teorie rischiano di non servire a nulla.

Tommaso Ropelato

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