Cori razzisti durante Inter-Napoli: Gadamer ci spiega perchè questo calcio è malato

Ancora i cori razzisti allo stadio. Questa volta è successo a San Siro, durante la giornata di Serie A di Santo Stefano, tra Inter-Napoli. I “buu” e gli “ululati” sono partiti dalla Curva Nord interista e hanno colpito Kalidou Koulibaly, centrale senegalese della squadra partenopea. “Abbiamo chiesto tre volte la sospensione della partita alla procura federale vicino al campo, sono stati fatti tre annunci dallo speaker dello stadio, ma la partita è continuata ad andare avanti” ha detto l’allenatore del Napoli Carlo Ancelotti ai microfoni di Sky. Intanto il sindaco di Milano Beppe Sala, tifoso nerazzurro e presente mercoledì sera allo stadio, ha scritto su Facebook all’indomani dell’accaduto: “Chiedo scusa a Koulibaly, a nome mio e della Milano sana che vuol testimoniare che ci si può sentire fratelli nonostante i tempi difficili in cui viviamo”.

Questo calcio fa schifo

I primi ululati sono cominciati già dopo quindici minuti di gioco. All’ottantesimo minuto, poi, la svolta della gara: Koulibaly, fin lì ampiamente il migliore in campo, viene ammonito per un fallo su Politano, attaccante nerazzurro. Il difensore senegalese si lascia andare ad un applauso di proteste e viene espulso. A quel punto i “buu” razzisti da parte della Curva Nord diventano chiari e distinti. Il difensore lascia il campo e il suo Napoli, già in difficoltà per tutta la partita, deve arrendersi al destro di Lautaro Martinez nel recupero. Ma il risultato è diventato dettaglio secondario: soprattutto a livello mediatico i soggetti della partita sono stati gli scontri prima del fischio d’inizio, costati la vita a un tifoso, e gli ululati contro Koulibaly. “Il calcio, lo sport più popolare al mondo, riflette la società nella quale prospera, i suoi valori ma anche i pregiudizi, le paure ed i sospetti“. Così aveva dichiarato Michel Platini, ex calciatore e presidente della UEFA dal 2007 al 2015, in un meeting delle Nazioni Unite dedicato al tema delle discriminazioni nel calcio, tenutosi a Ginevra, in Svizzera. È dunque tollerabile che il calcio stia diventando la zona franca attraverso la quale passano atteggiamenti che in nessun altro contesto del vivere civile sarebbero tollerati?

Precedenti tra sport e razzismo

Anche Matteo Salvini ha detto la sua. Il Ministro dell’Interno ha dichiarato al programma “Tiki Taka” “meno male che l’arbitro Mazzoleni non ha sospeso la partita Inter-Napoli, pensate cosa sarebbe successo… Si assiste al festival delle generalizzazioni, non mettiamo tutto nello stesso pentolone. Sempre a San Siro anche Bonucci è stato coperto di ‘buuu’ dai tifosi del Milan: questo è razzismo? Negli stadi cantano anche: ‘Milano in fiamme’, questo sarebbe razzismo? Il sano sfottò fra tifoserie non va considerato razzismo“. Purtroppo, però, se è vero che a prendere parte ai cori non sono stati tutti i tifosi, è altresì vero che non si è trattato di semplici sfottò ma di insulti mirati ad un singolo giocatore a causa del colore della sua pelle. Va tristemente sottolineato come lo sport (e il calcio in particolar modo), proprio qui in Europa, si sia affermato come uno dei palcoscenici preferiti da violenti e razzisti. Il fenomeno degli “ultras” è stato ormai studiato e descritto sotto ogni angolazione. L’estrema destra xenofoba ha nelle curve degli stadi le sue roccaforti: l’esposizione di svastiche e croci celtiche, gli ululati di scherno verso gli atleti di colore (l’ormai famoso “verso della scimmia”) sono la pessima cornice di tante partite. Il precedente che in Italia ha forse fatto più scalpore è avvenuto durante un Monza-Rimini del 2013, quando bersaglio di alcune banane lanciate dagli spalti fu l’attaccante senegalese appena ventiduenne Ameth Fall. Sport e razzismo, purtroppo non hanno ancora smesso di incrociarsi. E sono quasi sempre incroci pericolosi. Esistono anche altre storie che legano sport e colore della pelle. Va riportato come le competizioni agonistiche abbiano avuto per la piena integrazione degli afroamericani un’importanza paragonabile a quella delle predicazioni di Martin Luther King e Malcolm X: ad esempio un personaggio come Michael Jordan, ex stella del basket americano, è un autentico totem dell’unità nazionale, e il suo ritorno sui campi di gioco, alcuni anni fa, fu visto e vissuto dagli americani come uno dei primi momenti di rinascita dopo la tragedia delle Torri Gemelle occorsa l’11 settembre del 2001.

Svastica e croce celtica esposte nella curva dei sostenitori dell’Hellas Verona, durante l’incontro Hellas Verona-Mantova

Gioco e comprensione: il “Ludus ludens” di Gadamer

Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco morto nel 2002, riteneva che il comprendere non fosse solo uno dei possibili atteggiamenti del soggetto, limitato soltanto ad ambiti particolari della sua esperienza: esso invece caratterizza “il modo di essere dell’esistente stesso come tale”. Essendo costitutivo dell’esistenza stessa, il nostro “essere-ermeneutici” non è mai atteggiamento meramente teoretico: Gadamer sottolineava l’esistenza di ambiti in cui accadono esperienze di verità non coglibili dai metodi propri delle varie scienze. Esperienze nelle quali siamo toccati e modificati, eccedendo il semplice e distaccato rispecchiamento oggettivo. È il caso dell’esperienza estetica, un modo dell’autocomprensione. Per chiarire che cosa sia questo evento, Gadamer parte dal concetto di gioco, ma spogliato da ogni arbitrarietà e soggettività. Il gioco, infatti, ha un’essenza propria, indipendente dalla coscienza dei giocatori, che lo avvertono come una realtà che li trascende: al contempo necessita dei giocatori e degli spettatori per prodursi, sicché ogni giocare è al tempo stesso un esser-giocato.

Il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si produce attraverso essi e gli spettatori”.

Diventiamo “sacerdoti del gioco” che, così inteso, rapendoci nel suo mondo “altro” rispetto all’ordinario, libera dalla soggettività, aprendo ad un dialogo di cui, se rispettosi, si può essere partecipi. Come l’arte, il gioco è creatore. Ciò non avviene se gli spettatori, elementi come detto fondamentali per la riuscita dell’incremento ontologico ludico, si pongono, magari anche violentemente, come soggetti di un gioco ormai degenerato e incapace di regalare “l’esperienza di verità” di cui parla il filosofo. Penso che Gadamer avrebbe sorriso della punizione riservata ai tifosi dell’Inter: presentatisi allo stadio armati di poco rispetto e con l’arroganza di voler giocare una partita a cui nessuno, se non qualche guastafeste, voleva partecipare sono stati squalificati in toto per due giornate, più una giornata di squalifica aggiuntiva per la sola Curva Nord. E ora, senza pubblico, come si crea la magia?

Concluderei riportando un episodio che potrebbe essere parte di un libro di favole. Olimpiadi di Berlino, 1936. “Le Olimpiadi di Hitler”, che avrebbero dovuto dimostrare, anche nello sport, la supremazia della razza ariana. L’organizzazione è grandiosa, ma un uomo nero rovina tutto. Si tratta di Jesse Owens, l’uomo più veloce del mondo che, in quell’olimpiade, vince e si porta a casa ben quattro medaglie d’oro. Diventa così un vero e proprio simbolo dell’antirazzismo e la dimostrazione vivente della demenzialità di certi atteggiamenti e teorie. Ma forse questa è una storia troppo vecchia. Del resto, anche il razzismo dovrebbe esserlo.

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Tommaso Ropelato

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