Nell’eventualità di una gravidanza inaspettata, noi abitanti del ventunesimo secolo siamo abituati a pensare che il passo successivo sarà compiere una scelta tra due opzioni diametralmente opposte: tenere il nascituro, e di conseguenza prepararsi ad una nuova vita e a nuove priorità, oppure abortire, neutralizzando sul nascere questo cambiamento incipiente. Nella foga di questo evento imprevisto spesso non ci si rende conto che tale dicotomia in realtà non è così stretta; esiste infatti una terza via: portare avanti la gravidanza e dare in adozione il bambino. Tale scelta, oltre ad essere poco conosciuta, a volte implica un giudizio negativo, a volte addirittura più marcato che nei confronti dell’aborto, da parte degli “spettatori”. Esiste una via preferibile? Escludendo la prima possibilità, nella quale la coppia, o la madre, sceglie liberamente di tenere il bambino (il problema dunque non si pone), la difficoltà della scelta si presenta nel caso i genitori decidano di non accudire il bambino: intervenire e provocare l’aborto, o attendere il parto per distaccarsi in seguito? Analizziamo le due prospettive.
Le motivazioni che ci portano a scegliere di abortire sono di tre tipi: a causa di gravi malformazioni del feto, o di seri rischi di salute fisica o psicologica per la madre; a causa delle circostanze in cui è avvenuto il concepimento (ad es. stupro o incesto); per libera scelta della donna, scelta non necessitata da condizioni esterne. Per essere precisi, la legge 194 potrebbe non contemplare il terzo caso, mostrandosi leggermente ambigua. Il primo articolo recita infatti così: “L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite“, potrebbe significare che l’interruzione della gravidanza non riguarda la volontà o meno di avere un bambino, cosa che di norma è controllata dall’utilizzo di anticoncezionali o di metodi naturali, ma che è prevista solamente per situazioni patologiche (art. 4) certificate da un medico (art. 7), o per l’insorgenza di problematiche economiche, sociali o famigliari (art. 4). L’oscurità di tale legge si mostra nelle seguenti argomentazioni: in primo luogo, “non è mezzo per il controllo delle nascite” potrebbe vietare un’eventuale scelta statale (politica), e non individuale, di limitare le nascite all’interno dei suoi confini, cosa che permetterebbe invece al singolo di decidere liberamente per quanto gli concerne; in secondo luogo, tali problematiche di natura economica, sociale o famigliare, non venendo specificate, lasciano alla potenziale madre una certa libertà d’azione. Comunque, al di là di questi aspetti legati all’interpretazione che si può dare di una legge, non è una novità il fatto che l’aborto venga adoperato anche come contraccettivo, a prescindere da qualsiasi condizione estrinseca: a distanza di 40 anni dalla compilazione della legge, la sensibilità comune è cambiata al punto tale da non reputare più immorale, o illegale, l’aborto come libera espressione di auto determinazione della donna.
Prediligere l’aborto significa liberarsi di un peso non indifferente, tra l’altro in brevissimo tempo: quando si viene gettati (o ci si getta) in una situazione totalmente nuova, dove un’inedita vita umana ci chiede un impegno costante che potrebbe protrarsi per molti anni (a volte per tutta la vita, nel caso di malattie gravi), una risposta positiva al nascituro è tutto fuorché scontata. Tra l’altro, nell’eventualità di uno stupro, l’idea di convivere per sempre con la prole del proprio aguzzino non è certamente un’idilliaca prospettiva di vita futura. Ancora, nel caso il feto presenti una malformazione non indifferente, spesso, per preservarlo da una vita sicuramente difficile e sofferta, si preferisce arrestarne lo sviluppo. Essendo noi oggi in uno stato liberale, l’ultima decisione in merito quindi spetterà sempre e comunque al singolo (la donna in questo caso), che discernerà la situazione in base alla propria morale, nei limiti della legge, conscio di eventuali traumi fisici o psicologici. Ci troviamo quindi in una situazione in cui tale scelta, a meno che non si rientri in determinati sistemi valoriali, ha la stessa importanza sul piano giuridico di qualsiasi altra.
La libertà del singolo quindi in questo mondo attuale ha un ruolo centrale per le scelte morali. Mettiamo caso dunque che una persona reputi, personalmente ed autonomamente, l’aborto una scelta immorale, pur non volendo o non potendo permettersi di crescere un figlio: l’adozione del neonato sarebbe una valida alternativa alla sua soppressione. Innanzitutto, è doveroso puntualizzare il fatto che un’opportunità di questa specie sia raramente pubblicizzata: per motivi storici l’accento in tale questione si è posto soprattutto sulla possibilità o meno dell’aborto, in quanto realizzazione di un diritto ormai riconosciuto, senza dare troppo spazio ad altre tipologie di discorso in merito. Questa carenza di pubblicità implica una generale ignoranza sui propri diritti, ignoranza che può gettare in atroci crisi di natura etica. Ovviamente, non è questo l’unico motivo per cui tale opzione è poco contemplata: in primis, l’idea di condurre una gravidanza per 9 mesi, con tutti i rischi e le notevoli difficoltà che comporta, può gettare nello sconforto la novella coppia di genitori (o madre single). Per seconda cosa, separarsi dal figlio dopo un lungo periodo di simbiosi potrebbe apparire straziante e difficoltoso. Per ultimo, ma non meno perforante, la paura del giudizio che tale gravidanza, e successiva adozione, attirerebbe su di sé potrebbe bastare da sola a rifiutare questa possibilità: l’idea di “abbandonare un figlio” potrebbe essere comunemente ritenuta peggiore dell’aborto di un feto.
Ciononostante chiunque volesse abbracciare tale possibilità lo farebbe per una ragione meditata, forse ingenua, forse pregevole, ma senz’altro profonda: non voler negare a quello che si considera un figlio, e non più un semplice feto, la vita che il corso delle cose gli ha concesso. Tale motivazione, sebbene proveniente da un certo modo di vivere e di pensare, può valere senza alcun problema anche per chi non reputa l’aborto immorale, anche per chi in un primo momento preferirebbe dare soluzione immediata ad un errore del destino. Una cosa è importante far presente: non conoscere mai i propri genitori naturali, o anche soffrire per tutta l’esistenza di una grave malattia, non implica necessariamente una vita infelice. Abbiamo ogni giorno sotto gli occhi tanti e tanti esempi di persone, ad esempio Nick Vujicic, che, pur segnate nella loro quotidianità da difficoltà quasi insormontabili, non smettono di trasmettere gioia e desiderio di vita a coloro che le circondano.

Come scritto precedentemente, la questione morale su quale sia la scelta migliore in assoluto, dato che abitiamo un mondo sempre più liberale, viene a cedere, spostando il focus sulla libertà e l’etica del singolo. Non esiste quindi ‘qui ed ora’ una verità oggettiva ed incontrovertibile a cui affidarsi, non esiste, secondo il modo di pensare contemporaneo, una scelta migliore di un’altra, ma solo il singolo che sceglie quale via percorrere, senza mai dimenticare però un aspetto fondamentale: che l’individuo conosca realmente ogni sua possibilità e che possa ascoltare morali di differente indirizzo, per scegliere in maniera veramente libera.
Pol