Cosa è un confine?
Mettiamo subito in chiaro una cosa: un confine non è un limite. Il confine è sempre e comunque qualcosa che può essere trasgredito. Non è un qualcosa di de-finito, ma un concetto mobile, che divide per unire. Pensare il confine in termini di sbarramento e di cesura significa andare contro il concetto stesso di confine, il quale vive nel “cum”, nel comune. Il termine latino “confinus” non significa infatti confine. Confine in latino è finis, diverso dal limes che indica la linea di confine presidiata militarmente: confinus vuol dire semplicemente “avere un confine in comune” e presuppone dunque la relazione tra due entità, che possono essere stati o città o zone d’influenza. Il confine deve essere pensato come soglia, certamente essa divide, ma è allo stesso tempo la conditio sine qua non della comunicabilità e dello scambio tra zone diverse. E’ ovvio che il confine è un elemento strutturale dal punto di vista geopolitico, ed è evidente che non è possibile immaginare uno stato senza confini. E’ però allo stesso tempo sbagliato immaginare il confine come limes, come trincea, in una parola: come luogo del sospetto. Il confine deve essere considerato come luogo dello scambio, dell’incrocio e, dunque, del confronto. Confronto, sì, ipso facto conflitto. Il confine-conflitto non deve però spaventarci: è nel conflitto che si scopre il valore produttivo del confine. Una delle prime attestazioni del termine conflitto la troviamo nel “de rerum natura” di Lucrezio, e va ad indicare il momento carnale dell’esperienza amorosa. Il verbo (conflixit) è impiegato per descrivere la massima forma di intimità possibile, da cui non si esce né vincitori, né vinti, ma riesce, con la sua innegabile ambiguità, a cogliere l’ambivalenza che ogni relazione comporta, come compresenza di accoglienza e prossimità ma anche di irriducibile e necessaria alterità. Conflitto e non guerra, confinus e non limes, opportunità e non timore. Ecco la natura del confine, che perde la sua carica produttiva quando viene considerato trincea. Quando il Ministro dell’interno parla di “difendere i confini” dice una frase senza senso. I confini non vanno difesi, vanno considerati come un’opportunità, difenderli, cioè bloccarli, significa trasformare il confine in limes e dunque l’Italia in fortino e la storia ci insegna che i fortini, prima o poi, vengono espugnati.
Transtopia: per un’analisi psicoanalitica del luogo-confine
Utopia, distopia, atopia e altri termini simili indicano tutti un luogo, un territorio. Il confine sembra, per definizione, essere il non-luogo per eccellenza: sembra essere una linea, un grenzen, per usare la terminologia kantiana, che separa un dentro e un fuori. Abbiamo però visto che, per rendere l’idea di confine concettualmente produttiva è necessario pensarlo in quanto soglia, in quanto luogo di scambio, in quanto luogo del “tra” che si esplica, come magistralmente messo in luce da Francois Jullien nel breve saggio “l’identità culturale non esiste”, nella dimensione del comune, equidistante dall’universale e dall’uniforme. Luogo del tra, dunque trans-topia. Questo concetto apre una miriade di riflessioni teoretiche. Vorrei però uscire dalla filosofia e dalla geopolitica per introdurre un concetto di natura psicoanalitica. Donald Winnicot infatti, nel suo testo principale “Gioco e Realtà”, introduce il concetto di spazio transizionale. Esiste uno spazio di creazione e produzione per l’essere umano che s’interpone tra la realtà soggettiva e oggettiva. L’area transizionale: uno spazio potenziale tra individuo e ambiente che permette all’uomo di sviluppare un’autonomia riflessiva cogliendo la libera opportunità che ognuno di noi ha di dare un nuovo e personale senso alle proprie esperienze e al mondo. Trasportandolo al nostro ambito, possiamo notare come il confine si configuri come un perfetto spazio transizionale tra due luoghi. Il confine assume però, nella sua natura di spazio (transizionale), un’inevitabile accezione di luogo. Luogo-tra-luoghi, dunque. Luogo-tra-luoghi con valenza transazionale, che permette l’incontro tra due entità che entrano in relazione, dando luogo a dei processi creativi volti alla creazione e alla produzione di nuove identità, altro che alla loro distruzione! Il confine come spazio transizionale ha dunque un intrinseco valore produttivo, che ci permette di superare la dicotomia tra io e non-io, tra nazione e altro. Il fatto, e la difficoltà, sta nel considerarlo come tale, non avendo paura della natura intrinsecamente conflittuale del concetto di confine. Disse qualcuno che “polemos è padre di tutte le cose.”
Fini e confini dell’europa
L’Europa non è uno stato, è vero. I confini sono una prerogativa dello stato, è vero. Tuttavia parlare di confini europei è quanto mai attuale e necessario, e sarà probabilmente il tema principale delle elezioni europee che si svolgeranno il 26 Maggio. Nella fase storicamente data che si innalza davanti a noi, ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”. Vi è un conflitto tra autocoscienze, che genera paura. Le autocoscienze qui in gioco sono quelle dell’Europa e quelle della non-Europa, dalla Crimea, passando per il medio oriente, all’Africa. Da un punto di vista interno, il carattere transtopico e transizionale del confine è messo perfettamente alla luce da Schengen. Il punto è che è facile, troppo facile. I vari stati dell’Europa sono sempre stati considerati come articolazione di un unico sentire europeo, come scientificamente messo in luce da Federico Chabod in “Storia dell’idea d’Europa”. Sentire europeo che poteva fondarsi sull’idea della libertà (Machiavelli, Montaigne), sull’uniformità dei costumi (Rousseau), sull’idea di una cultura comune, di una “republique des lettres” o di un “aufklarung” (Voltaire, Kant), oppure del comune sentimento cristiano, “Europa o Cristianità” (Novalis). Per quanto riguarda il mondo esteriore, riprendendo la celebre espressione di Fichte, possiamo affermare che “l’Europa non ha lasciato in pace il genere umano nemmeno per un secondo”. E’ sempre bene ricordare che il mondo moderno di cui siamo eredi, e di cui l’idea stessa di Europa è figlia, nasce da un genocidio: quello dello sterminio degli indios americani, senza il quale non avremmo avuto la Rivoluzione Americana e, dunque, quella francese: citando Rino Gaetano, la rivoluzione Francese, e dunque, il sistema liberal-democratico capitalistico si sono affermati solo perché “il marchese Lafayette ritorna dall’America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo”. Alla luce di questi fatti è impensabile un’Europa che si chiude. Noi europei abbiamo sempre ignorato i confini altrui, il sistema capitalistico li ignora: noi europei, e i nostri cugini americani abbiamo esportato la democrazia con bombe umanitarie. Davvero pensiamo di chiuderci?
L’idea di confine europeo che deve svilupparsi deve tenersi a metà strada dai bombardamenti umanitari e dai sovranisti, così da pensare il confine come luogo del tra, luogo di incontro tra culture, e dunque luogo di produzione di identità. L’identità è qualcosa che viene prodotto, è un concetto dinamico, pensare di incasellarlo è semplicemente antistorico. Tuttavia l’unico modo di pensare a un confine europeo è quello, come detto in apertura di paragrafo, è quello di rendere l’Europa uno stato. Disse Hegel che “in America lo Spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. L’America è dunque il domani del vecchio continente”.
Se gli Stati Uniti d’America sono il domani del vecchio continente, allora i famigerati “Stati Uniti d’Europa” non possono essere altro che il nostro presente.
Giuseppe De Ruvo