Dalla fortunatissima saga de “Il pianeta delle scimmie”, fino al famoso “2012”, il filone apocalittico è ormai un genere affermato nell’immaginario comune.

Per quanto appartenenti al genere fantascientifico, alcune pellicole dovrebbero farci riflettere. Il futuro del nostro pianeta dipende anche dalle nostre azioni e da come vogliamo gestire le problematiche che il tempo ci pone di fronte.
L’alba del giorno dopo
Senza fare alcuno spoiler, si può in breve riassumere la trama del film. Il tutto comincia con il distaccamento di un enorme porzione di ghiaccio dalla calotta antartica. A seguito di una serie di eventi, il mondo precipita in una nuova era glaciale. Nonostante gli avvertimenti ricevuto dalla comunità scientifica, i governi mondiali sono per la maggioranza impreparati a questo catastrofico evento. Il cambiamento climatico ha portato ad un alterazione dell’intero ecosistema Terra, fino al suo collasso. Al di là delle vicissitudini dei singoli personaggi, il denominatore comune della storia è uno: la catastrofe è causata dall’inquinamento. Il titolo stesso del film è significativo: “the day after tomorrow” letteralmente dopodomani, richiama la nostra mente al futuro, a quello che accadrà non solo nell’immediato futuro, il domani, ma di gettare lo sguardo più avanti. La corsa alla conoscenza e all’industrializzazione ha spesso messo in secondo piano la lungimiranza della razza umana. Ridurre le emissioni non è una cosa semplice, tantomeno una cosa che può accadere da un giorno all’altro. Allo stesso modo l’effetto del minor inquinamento non è visibile dall’oggi al domani, ma richiede del tempo. Come ricorda la celebre frase “abbiamo preso il mondo in prestito dai nostri figli”, la responsabilità che abbiamo nei confronti del pianeta ha dirette implicazioni anche sul futuro delle prossime generazioni. Sta a ognuno di noi rispettare nei piccoli gesti di ogni giorno questo impegno nei confronti del futuro. Solamente con uno sforzo collettivo è possibile fare in modo che l’alba del giorno dopo sia migliore di quella del giorno prima. Bisogna diffidare di tutti quei falsi miti secondo cui se gli inverni divengono sempre più freddi il cambiamento climatico non esiste ed il riscaldamento globale è solo una baggianata. Lo stravolgimento di temperature e condizioni climatiche, indipendentemente dalla sua natura, è indice di un problema. Un problema che, se già di per sé è causato dal continuo mutare del nostro pianeta, viene aggravato ancora di più dalla nostra irresponsabilità. La scomoda verità è che se vogliamo continuare ad abitare il pianeta e preservare le altre forme di vita, non bastano emissioni zero e leggi per regolamentare l’inquinamento, ma è necessario agire per migliorare la situazione anziché rimanere passivi in bilico fra il “campare un altro giorno” e il “ancora 5 anni e i danni saranno irreversibili”. Fortunatamente in molte università viene dato notevole peso alle pratiche che ci condurranno sulla giusta strada e, tra le materie più coinvolte in questo ambito, troviamo l’ingegneria ambientale e quella chimica.

Emissioni e catastrofi
Nonostante in alcuni casi i disastri raccontati nei film siano di proporzioni esagerate, c’è effettivamente una correlazione diretta fra le nostre azioni e il cambiamento climatico. Un esempio su tutti sono le piogge acide. Le emissioni di solfati e nitrati in atmosfera, composti a base di zolfo azoto e ossigeno, causano un alterazione nel ciclo dell’acqua. Prendiamo ad esempio una fabbrica che produce sostanze chimiche. In molti processi di produzione gli scarti sono anidride nitrica e solforica, due dei composti prima citati. Una volta immessi nell’aria, questi gas salgono di quota fino a raggiungere le nuvole. I fumi reagiscono con l’acqua presente nelle nuvole, quella che normalmente ricadrebbe sotto forma di pioggia. Prima che avvengano le precipitazioni però i nitrati e i solfati si trasformano, con l’H2O, in acido nitrico e acido solforico. Le concentrazioni di questi due acidi sono ovviamente molto basse, ma comunque sufficienti a danneggiare raccolti e monumenti. Molti monumenti sono infatti realizzati di materiali insolubili in acqua, ma sensibili ad acidi inorganici come quelli nitrico e solforico. Sono denominati acidi inorganici perché, a differenza dell’acido acetico (presente nell’aceto) e formico (presente negli escrementi delle formiche) ad esempio, sono composti da elementi inorganici e non prevalentemente da carbonio. In definitiva si ha che queste sostanze arrivano a sciogliere piccole porzioni dei monumenti, fino a provocare collassi o seri danni. Fortunatamente oggi le emissioni delle fabbriche sono regolamentate da rigide leggi e controlli, ma non è sempre stato così e in alcune parti del mondo queste convenzioni non sono rispettate. In secondo luogo è importante citare il famoso buco nell’ozono. Sebbene sia sulla bocca di molte persone come un grido di battaglia contro l’inquinamento incontrollato, non tutti ne conoscono origine e storia. L’ozono è una molecola un po’ particolare, formata da ossigeno, come quello presente nell’aria che respiriamo. La differenza è che ciò che noi inaliamo è una sostanza composta da due atomi di ossigeno legati tra di loro, mentre l’ozono è un trio di atomi di ossigeno. A cavallo dell’inizio della stratosfera, appena oltre i 15 km di altitudine, la nostra atmosfera contiene uno strato di ozono. Questa invisibile barriera ci protegge da raggi UV dannosi e altre radiazioni, ed è quindi fondamentale per la vita sul nostro pianeta. Nonostante questo lo strato ha un equilibrio estremamente delicato. Il buco nell’ozono si è formato a causa di emissioni gassose, tra cui i CFC. I CloroFluoroCarburi sono una classe di composti utilizzati come refrigeranti, formati da carbonio, idrogeno e due alogeni, fluoro e cloro, “assemblati” in modi differenti tra loro. Questi composti sotto forma di vapore vanno a ledere lo strato reagendo con l’ozono, aprendosi un vero e proprio varco. In corrispondenza del primo foro si ha un indebolimento dell’ozonosfera, che si aprirà sempre di più tanto più gas arriva in corrispondenza di quella zona. L’ozono è anche un prezioso agente disinfettante, rivelatosi molto utile per contrastare la diffusione del Coronavirus. Il nostro pianeta è un ecosistema prezioso ma anche fragile. Dobbiamo preservalo e diminuire il più possibile l’inquinamento di acqua ed aria. Nonostante sia improbabile aspettarsi un imminente era glaciale con tanto di lupi tra le strade di New York, di certo se non poniamo un freno alle emissioni dannose ci avviciniamo a creare un futuro spiacevole per noi e per molte altre forme di vita sul pianeta.

L’ingegneria chimica e i nuovi carburanti
Fra le più promettenti fonti di energia rinnovabili vi sono i biocarburanti. Nonostante il prefisso bio sia spesso abusato in tempi recenti, non è questo il caso. Il biogas e il biodiesel, solo per citarne alcuni, sono totalmente “green”. Per quanto riguarda il biogas viene prodotto grazie a dei particolari organismi, detti metanogeni, che riescono ad utilizzare la CO2 per produrre metano. In poche parole loro “respirano” quello che per noi è un prodotto di scarto, l’anidride carbonica, e attuano una serie di reazioni chimiche fino a trasformarla in metano, lo stesso che utilizzate nei fornelli di casa. La cosa strabiliante è che il “carburante” usato per questo processo è composto da scarti biologici, come ad esempio quelli che derivano dagli allevamenti e dalle coltivazioni intensive, i nostri rifiuti umidi e persino gli escrementi degli animali. Questi microbi riescono a prendere anidride carbonica, rifiuti organici, e darci in cambio un combustibile. Il tutto avviene in dei reattori ermetici in assenza di ossigeno, poiché questi batteri sono anaerobi. Per quanto riguarda il biodiesel invece, il processo è altrettanto semplice, ma non coinvolge altre forme di vita oltre agli zelanti chimici che lo eseguono in laboratorio. La sua produzione coinvolge metanolo, o alcol metilico che dir si voglia, e degli oli, esausti o meno, di qualunque genere. Al termine del processo si ottiene biodiesel, il nostro carburante, e il glicerolo. Il glicerolo è un prodotto secondario utilizzato poi per produrre resine, saponi ed esplosivi. In UE vige l’obbligo di una percentuale minima di biodiesel nei carburanti delle auto, e sempre di più il biogas sta prendendo piede nella produzione del metano. Ma l’ingegnere chimico non si occupa solamente di realizzare impianti per la produzione di sostanze “green”, ma anche della bonifica di siti e di scarti industriali. In questo campo le biotecnologie si stanno facendo strada sempre di più, dimostrando come uomo e microbo possano collaborare per un mondo più pulito. Anche nell’ambito dell’offshore engineering, che si occupa della produzione di impianti a largo delle coste, viene data molta attenzione all’ambiente e al preservare gli ecosistemi marini, così che l’estrazione di petrolio e di altre risorse sia al 100% sicura non solo per chi lavora sulle piattaforme ma anche per le forme di vita che abitano i nostri mari. Il progresso non è mai da condannare, al contrario, deve solo essere indirizzato nel modo giusto verso un mondo pulito ed efficiente.
