“Che cosa sono le nuvole?” è una rivisitazione molto particolare dell’Otello shakespeariano, in cui riecheggiano tematiche e immagini di ispirazione platonica. Ma “Che cosa sono le nuvole?” è anche la struggente canzone d’accompagnamento di Domenico Modugno, una profonda riflessione sulla caducità dell’esistenza umana.
Capriccio all’italiana è un film comico a episodi del 1968, in cui ogni spezzone è diretto da un regista diverso e le trame non hanno particolare connessione tra di loro. Pasolini contribuisce al progetto realizzandone il quarto episodio, Che cosa sono le nuvole?, a cui prendono parte volti ben noti al pubblico italiano, come Totò, Ninetto Davoli e lo stesso Modugno. Accostati agli elementi della cultura popolare spiccano anche riferimenti artistici e filosofici, ognuno dei quali molto rilevante nell’interpretazione complessiva dell’opera. Le tematiche trattate spaziano dall’ambito morale a quello ontologico, dalle ragioni del nostro agire ad una riflessione sulla ‘consistenza’ effettiva di ciò che è reale. Prima di affrontare la pellicola più nello specifico è indispensabile menzionare un quadro in cui è racchiuso il risvolto sociale di tutta la pellicola, ovvero Las Meninas di Diego Velasquez. L’opera è affissa all’esterno del teatro in cui ha luogo la storia, in veste di vera e propria locandina del film stesso. Una scelta così singolare è dovuta al fatto che il protagonista del quadro – così come accade nel corto – non è nessuno dei soggetti ‘apparenti’ ben in vista, ma lo spettatore stesso, tanto ignaro del proprio coinvolgimento quanto al centro dell’attenzione dei due artisti. Pasolini e Velasquez si rivolgono ad ognuno di noi, parlando di fatti che ci riguardano in prima persona.
Marionette ed esseri umani
I protagonisti del film sono le marionette dei principali personaggi dell’Otello, che ogni giorno salgono sul palcoscenico per inscenare la tragedia. Nonostante la presenza di un burattinaio che le manipola, e che dunque determina i loro comportamenti una volta in scena, le marionette dimostrano di avere, chi più chi meno, una parziale consapevolezza di se stesse. Molto spesso capita infatti che alcune di loro si fermino a riflettere sul perché delle proprie azioni e sull’origine della sofferenza e dell’amore, quasi come dei bambini durante la crescita. È il caso di Otello, un ragazzo ingenuo e dabbene – Pasolini gioca con gli stereotipi regionali sfruttando gli accenti, in questo caso quello romano – che dietro le quinte si arrabbia con Jago (Totò) per la sua meschinità e si domanda straziato del motivo per cui non ci si possa mai fidare delle apparenze. Al che l’antagonista, letteralmente verde di gelosia ma anche molto saggio, gli intima di fare silenzio perché il burattinaio non deve sentirli parlare come se fossero ‘persone’.
“Ma perché, perché dovemo esse così diversi da come se credemo, perché?
Eh figlio mio, noi siamo in un sogno dentro un sogno“.
Jago è amaramente consapevole della finzione nella quale sono incatenati, costretti per tutta la vita a recitare delle parti che non corrispondono a ciò che sono davvero. La verità può esistere solo dentro di noi, dietro le maschere e gli stereotipi sociali.
“Ma cos’è la verità? È quello che penso io di me? È quello che la gente pensa di me? O quello che pensa lui (il burattinaio)?
Cosa senti dentro di te? Concentrati bene. Quella è la verità, ma shh. Non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più“.
Il mito della caverna
Nel VII libro della Repubblica Platone affronta la tematica dell’educazione dei giovani filosofi, che nella sua città ideale un giorno saranno al potere. Il culmine di tutta la trattazione è un mito famosissimo, studiato e reinterpretato da tutti i maggiori pensatori della storia, nonché colonna portante dell’iconografia filosofica tradizionale. Tutti coloro che abbiano voluto e/o dovuto studiare filosofia ne conoscono la storia. Un gruppo di persone sono tenute rinchiuse ed incatenate in una caverna, nella quale un fuoco, che sta alla loro spalle, proietta su una parete le ombre di alcune sagome che altri individui fanno muovere di proposito. Per i prigionieri la realtà inizia e finisce con i movimenti delle ombre sulla superficie rocciosa, finché uno di loro riesce a liberarsi dalle catene. Una volta voltatosi in direzione opposta alle proiezioni osserverà prima le sagome e il fuoco, poi, uscito dalla caverna, potrà finalmente entrare a contatto con il mondo esterno. Dopo essersi adattato alla luce accecante che brilla fuori, metafora dell’idea suprema di bene che illumina tutte le altre, lo schiavo libero potrà comprendere che il mondo ‘reale’ va ben oltre le ombre che era abituato a vedere nella grotta. Nel pensiero platonico ciò che sta fuori dalla caverna può essere accostato al mondo delle idee, un luogo ontologicamente superiore al nostro mondo, non soggetto al mutamento ed eterno. Compito del filosofo non è però di assestarsi alla contemplazione, ma di tornare indietro, nell’oscurità della caverna, per aiutare gli altri a liberarsi a loro volta ed a uscire. Purtroppo, una volta giunto dagli altri schiavi, questi ultimi si rifiuteranno di credere alle sue parole e lo uccideranno.
Ritornando al film appare evidente il nesso del mito con la condizione, in questo caso irrimediabile, del pubblico dello spettacolo. La realtà degli spettatori è confinata al reiterarsi giornaliero dello spettacolo delle marionette, perciò in ognuno di loro manca la percezione dello stacco con ciò che è pura finzione. Nel finale questa inconsapevolezza li porterà a irrompere sul palco per impedire ad Otello di uccidere Desdemona, facendo a pezzi sia lui che Jago. Di fatto si verifica il fenomeno pirandelliano della rottura della quarta parete ma in senso contrario: non sono i personaggi fittizi ad uscire dalla barriera immaginaria del palcoscenico verso le persone ‘vere’; bensì è la realtà che aggredisce la finzione perché non vi percepisce alcuna differenza. In tutto ciò una parte di rilievo è recitata dal burattinaio, che muove le marionette così come nel mito venivano mosse le sagome poi proiettate sulla parete rocciosa, e dunque crea la finzione stessa.
Il finale e la metafora del derubato
Dopo essere state fatte a pezzi, le marionette di Jago e Otello riescono ad evadere dall’illusione a cui erano costrette. Il giorno successivo infatti l’immondezzaio, interpretato da Domenico Modugno, raccoglie i loro resti e li trasporta sul furgone fino alla discarica, sulle note della canzone che prende il titolo dal film. Una volta a destinazione i due alzano lo sguardo e vedono per la prima volta le nuvole, rimanendone incantati e senza sapersi dare spiegazioni. L’immagine è ancora una volta in analogia con la visione della realtà ideale nel mito della caverna. Le idee, che incarnano sia concetti matematici puri, che, soprattutto, i valori umani, risplendono di una magnificenza tale che lo spirito ne rimane estasiato e finalmente trova pace in sé stesso. Tuttavia sembra che l’unica possibilità che ci rimanga per contemplare la perfezione sia al sopraggiungere della morte, quando l’anima è finalmente in grado di ritornare alle idee. In realtà l’obiettivo della pellicola è quello di rivalutare la precarietà del mondo del divenire rispetto a quello ideale. Posto che l’eternità e l’immutabilità dell’iperuranio non fanno parte dell’unico mondo ‘vero’, cioè il nostro, l’uomo deve cercare la bellezza assoluta qui ed ora, nella limitatezza e nella caducità, oltre alle maschere, ai pregiudizi e agli stereotipi sociali.
Il “folle amore” cantato da Modugno è simbolo della titanica accettazione dell’uomo dei suoi limiti mortali, che ci impediscono di essere eterni come le idee, ma sono anche ciò che dà valore alle gioie della vita, come l’amore.
“Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro.
Ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.“
Il derubato che sorride, cioè l’uomo che non si arrende alla precarietà dell’esistenza, ruba qualcosa di ciò che gli è stato tolto, cioè quel senso di eternità che ci coglie quando sentiamo la bellezza pura della cose, come se ne toccassimo l’idea perfetta. Il derubato che piange invece si priva del valore di cose che non potrà avere per sempre, rassegnandosi al nulla più assoluto.