Secondo voi Sherlock Holmes insegna la logica? Ebbene no, anche se si può imparare l’abduzione

Arthur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, era un medico, non un filosofo. Perché il modo di ragionare del celebre detective di Baker Street è molto più simile all’ottusità del dottor Watson di quanto solitamente si pensi.

Il detective londinese Sherlock Holmes è universalmente considerato un campione della razionalità. Nella serie televisiva britannica Sherlock (2010–2017), attualmente visibile su Netflix, Benedict Cumberbatch si dimostra spesso ferrato nella sottile arte della deduzione logica. Ma è davvero così?

Che cos’è la logica?

La logica è lo studio formale della correttezza dei ragionamenti (o inferenze). Che sono concatenazioni di enunciati che partono da alcune premesse e da queste ricavano alcune conclusioni. La logica è, dunque, una teoria formale della conoscenza, un “vestibolo delle scienze” (cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, 1781, p. 40). S’interessa, cioè, solo alla forma delle inferenze, non al loro contenuto. La logica si limita, quindi, a fissare le regole del ragionare, stabilendo quando i ragionamenti sono validi e quando, invece, sono scorretti. Un ragionamento valido non è necessariamente vero, e viceversa. Un’inferenza formalmente scorretta prende il nome di fallacia logica. Le fallacie si distinguono in formaliinformali. In particolare, le fallacie formali sono schemi argomentativi non sempre validi, ma che possono a prima vista apparire convincenti e persuasivi.

Le opere logiche di Aristotele furono raggruppate da Andronico di Rodi in età antica sotto il titolo di “Organon”, che in greco significa “strumento”.

L’abduzione logica

Un esempio di fallacia formale è l’abduzione, basata sull’affermazione del conseguente. Essa risulta molto simile a un ragionamento logico corretto, che prende il nome di modus ponens. Perciò, di primo acchito, tende a convincerci. Un esempio di modus ponens è il seguente: “Se c’è il Sole, allora i vestiti si asciugano. Ma c’è il Sole. Quindi i vestiti si asciugano.” L’affermazione del conseguente è molto simile, per quanto sia formalmente scorretta: “Se c’è il Sole, allora i vestiti si asciugano. Ma i vestiti si asciugano. Quindi c’è il Sole.” Questa inferenza non è valida, perché, in questo caso, i vestiti potrebbero asciugarsi anche di notte, utilizzando, per esempio, un’asciugatrice elettrica.

Ciò non toglie che questo modo di pensare, che prende il nome di affermazione del conseguente, non sia irrazionale e non sempre conduca a risultati sbagliati, come già evidenziato dal filosofo statunitense Charles Sanders Peirce (1839–1914).

Sherlock Holmes pensa come il dottor Watson?

Chi ha letto i quattro romanzi e i 59 racconti di Sherlock Holmes, apparsi inizialmente sullo Strand Magazine, ripubblicati in continuazione e ampiamente ripresi in film e serie televisive, sa bene quanto il dottor Watson, dinanzi all’imponente intelligenza holmesiana, sia un po’ bete, per riprendere un aggettivo flaubertiano, solo parzialmente traducibile in italiano con “ingenuo” o “inetto”. Watson è l’incarnazione dell’uomo medio vittoriano, la cui intelligenza scolora di fronte alla sgargiante arguzia del coinquilino di Baker Street. Eppure, strano a dirsi, il modo di ragionare di Sherlock Holmes non è affatto logico, nel senso filosofico e rigoroso del termine. E appare molto più simile al normale modo di procedere di un medico, quale è appunto il dottor Watson, alter ego di Conan Doyle.
Come mostrato da Umberto Eco (1932–2016) e Thomas Albert Sebeok (1920–2001) nel volume Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce (Bompiani, Milano 1983), attualmente consultabile in formato PDF solo in lingua inglese, ma sintetizzato e dettagliatamente spiegato dal filosofo Andrea Sani  (cfr. A. Sani, I “perché” della filosofia. Itinerari filosofici per il ciclo liceale e per l’Esame di Stato, G. D’Anna, Messina–Firenze 2015, pp. 95–99):

La procedura logica usata dai grandi detectives della narrativa poliziesca non è né la deduzione, come spesso si crede, né l’induzione baconiana, bensì l’abduzione.

Cameriere maldestre, iodioformio e altri voli pindarici

Nelle battute iniziali del racconto A Scandal in Bohemia (1891) Holmes abduce dal comportamento del dottor Watson, tornato a trovarlo dopo una lunga assenza, che l’amico ha ripreso a esercitare la professione medica, che qualche giorno prima si è bagnato sotto la pioggia e che ha una servitù maldestra. Come ha fatto? Semplicissimo. Ha abdotto il ritorno all’esercizio della professione medica a partire dalla tracce nere di nitrato d’argento che Watson ha sulle dita, passando per il pungente odore di iodioformio che emana, sino al rigonfiamento del cappello che indica dove egli è solito tenere lo stetoscopio. Quanto al resto, prosegue Holmes:

Gli occhi mi dicono che nel lato interno della sua scarpa sinistra, il più esposto alla fiamma del caminetto, il cuoio presenta sei graffiature quasi parallele causate evidentemente da qualcuno che ha grattato molto malamente i bordi delle suole per toglierne il fango incrostato. Per cui, la mia doppia deduzione: primo, che lei è stato fuori casa col cattivo tempo, secondo che chi le lucida gli stivali è un’esemplare particolarmente abominevole di ilota londinese (cfr. A.C. Doyle, Tutto Sherlock Holmes, Newton Compton Editori, Roma 2006, p. 172).

Come si vede, Sherlock Holmes non usa un modo di procedere logico, e cioè filosoficamente valido, ma, in assenza d’informazioni complete e di prove sperimentali, si trova costretto a fare un volo pindarico, a “saltare alle conclusioni“, praticando l’abduzione, senza per questo pervenire a conclusioni bizzarre o irrazionali.

Si può allora dire che il celebre detective dimostra una buona capacità di osservazione e che padroneggia l’abduzione come uno storico o un buon medico alla Watson o alla Doyle, ma non ha un cervello “filosofico”, come invece asserisce il fratello maggiore Mycroft Holmes in una delle scene finali della trasposizione televisiva del racconto sopracitato, dal titolo Uno scandalo a Belgravia.

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