Realtà e finzione
Questa riflessione nasce inconsciamente nel momento del distacco da una situazione di cui non siamo protagonisti bensì spettatori in prima fila, uno scenario nel quale si è immersi al punto da perdere la distanza tra intrattenitore ed intrattenuto, uno spettacolo al termine del quale si torna in sé repentinamente ed improvvisamente, come risvegliandosi dal coma psicologico lentamente iniziato con l’apertura del sipario da cui si riprende conoscenza alla chiusura delle tende – catapultato nuovamente nel proprio corpo alla fine di un breve ma intenso viaggio astrale.
Come quella volta in cui hai assistito ad un incidente stradale e ti sei domandato cosa sarebbe successo se al volante ci fossi stato tu, ripercorrendo in pochi istanti una vita intera e focalizzandoti sui momenti più salienti, necessari da imprimere nella mente durante la transizione verso l’aldilà – ma poi passi avanti, lasci le automobili collise alle tue spalle, e torni a sentire l’asfalto sotto i piedi, il sole sulla pelle, e ti accorgi di essere stranamente ancora vivo; oppure quella volta in cui l’eroe sta affogando e hai sentito mancarti l’aria, inumidirsi la pelle, allontanarsi la luce che non riesce ad attraversare la densa coltre dell’oceano, annaspare con le gambe nell’immensità del vuoto – ma poi i pop-corn cadono a terra, un telefono squilla, e ti rendo conto della vibrazione del tuo telefono, della comodità della poltrona, dell’ossigeno che entra nei tuoi polmoni, della sala gremita, dello schermo.
Qualcuno ha chiamato questo fenomeno catarsi – ovvero la comprensione della finzione teatrale e la conseguente acquisizione di un insegnamento valido per la vita – altri alienazione – ovvero la delega psico-emotiva che operiamo nei confronti di qualcuno o qualcosa affinché elabori pensieri, parole, emozioni ed azioni al posto nostro – ma la sostanza rimane la stessa: viviamo momenti in cui non siamo più noi.
In questo punto del discorso sorge il dilemma: pensiamo di rimanere noi stessi anche quando non siamo noi?
Under the Dome e la necessità di sopravvivenza
Un valido spunto di riflessione per (tentare di) rispondere all’interrogativo può essere trovato nella serie televisiva Under the Dome, americanissimo (senza offesa, ndr) adattamento dell’omonimo libro di Stephen King in cui gli abitanti di una cittadina statunitense si risvegliano sotto una misteriosa cupola elettromagnetica che li esclude dal mondo esterno – invalicabilità, incomunicabilità; in seguito ai primi momenti di titubanza e panico generali, ecco che i protagonisti iniziano a emergere dal gruppo: il solitario e misterioso di turno si trasforma in un filantropo sempre in pole position per estrarre uno sprovveduto fra le macerie o evitare qualche sparatoria; il giovanotto sentimentale e sociopatico diventa un aguzzino che rinchiude la propria amata in un bunker antiatomico per una settimana; l’amato consigliere comunale veste i panni del dispotico tiranno sotto le mentite spoglie del leader; l’innocuo hippie della storia agguanta il fucile per elevarsi a squadrista del capo.
Districandosi tra vicende soprannaturali e cliché d’Oltreoceano, può risultare estremamente interessante notare come la comunità di Chester’s Mill da bucolico paradiso terrestre di concordia ed armonia degradi progressivamente in vicende di furto, violenza, anarchia, egoismo: a dominare è la forza della necessità, l’anághke [leggasi anánke] degli antichi ateniesi che costringe l’uomo a comportamenti e pensieri innaturali, inattesi, insperati, ad agire fuori dal proprio quotidiano e a tentare in molti casi l’estremo, come una delle giovani protagoniste, la quale furtivamente ruba l’insulina di un bambino per mantenere in vita la madre – nel momento del bisogno, l’uomo esercita ogni proprio potere per resistere, anche a discapito degli altri: è davvero così?
The Experiment e la malattia del potere
Inevitabile tappa per la produzione di una risposta è l’esperimento condotto dallo psicologo americano Philip Zimbardo nel 1971, altresì noto come esperimento della prigione di Stanford, volto a indagare il comportamento di due gruppi di volontari divisi tra prigionieri e guardie, fedelmente svolto in una ricostruzione dell’ambiente carcerario, con divise, ruoli, pasti e turni; già al secondo giorno, gli pseudo-galeotti iniziarono a manifestare atteggiamenti di insofferenza e violenza, mentre gli pseudo-custodi adottarono un comportamento repressivo, disgregante ed opprimente; al quinto, preso atto dell’inarrestabile aggravamento dell’atmosfera, lo stesso Zimbardo interruppe l’esperimento, giacché i volontari non erano più in grado di discernere la realtà dalla finzione.
Oltre a partire dal presupposto che tutti gli analizzati fossero totalmente sani sotto il profilo psicologico e fisico nonché privi di qualsivoglia precedente di atti violenti, il risultato porta a riflettere profondamente sulla fondamentale importanza e devianza che il contesto nel quale si vive rivesta circa il comportamento, nello specifico a considerare il cambiamento personale che viene innescato dal grande mostro del potere: basti pensare a frasi come i soldi gli hanno dato alla testa, oppure da quando è stato promosso non lo riconosco più, o ancora ha abusato della sua posizione per entrare nel vivo dell’argomento; tutti questi esempi, facilmente estraibili dal quotidiano di ciascuno, inducono a considerare l’impetuoso tsunami che travolge la mente e la psiche del più introverso dipendente all’acquisire rilevanza e potere, a notare la drasticità della metamorfosi da timido bozzolo di scrivania a tirannica farfalla sediziosa.
In conclusione, siamo veramenti coscienti di chi siamo in ogni circostanza?
Gianluca Ricci