Il racconto di uno dei genocidi più cruenti e dimenticati della nostra storia.
1994: dal 6 aprile al 16 luglio, si verificò uno dei genocidi più atroci che la storia contemporanea possa ricordare. Tutsi e Hutu, due delle tre etnie presenti nella regione africana dei Grandi Laghi, vennero trucidati da parte delle milizie paramilitari dei Interahamwe. La causa? Ideologie razziali.
UNA CONVIVENZA DIFFICILE: L’ORDINE DI «TAGLIARE GLI ALBERI ALTI»
Tutsi, Hutu e Twa convivevano nella stessa regione, il Ruanda, condividendo la stessa cultura, parlando la stessa lingua e praticando la stessa religione. Quando verso la fine dell’800 la regione del Ruanda venne affidata al Belgio durante l’età coloniale, si ritrovarono a dover fronteggiare una grande popolazione che si vivevano nella stessa regione da tempo, ma con fisionomie diverse. Soltanto i Tutsi, infatti, per la loro carnagione chiara e per il loro essere alti e snelli, erano quelli che più si avvicinavano agli standard occidentali. Ricevettero il compito di moderare i due restanti gruppi. Non bastò, in quanto la distinzione dovette essere ufficializzata anche sui documenti attraverso l’indicazione dell’etnia. Il controllo belga terminò ufficialmente negli anni 50 con il processo di decolonizzazione. Da un lato, gli Hutu si ribellarono; dall’altro, i Tutsi erano pronti progettare l’indipendenza dal Belgio. Per tale ragione il Belgio si dimostrò dalla parte degli Hutu e per portare a termine i loro obiettivi gli Hutu entrarono in politica, fondando il Parmehutu, il loro partito, col fine di incentivare una rivoluzione che avrebbe affermato la superiorità degli Hutu. Infine, la monarchia venne abolita e venne istituita la Repubblica. Da questo momento iniziano le persecuzione contro i Tutsi che si ritrovarono a dover fuggire dalle persecuzioni abbandonando il Ruanda. Nel 1987 nasce il Fronte Patriottico Ruandese, che si pone l’obiettivo di far ritornare i Tutsi promettendo che avrebbero ritrovato la possibilità di poter vivere pacificamente. Ma nel mentre il Ruanda vive una crisi economica e agricola senza precedenti, dove la popolazione oltre a fronteggiare una crisi alimentare deve fare anche i conti con i problemi economico – sociali che stanno affliggendo il Ruanda. Il 4 agosto del 1993, con gli accordi di Arusha, i Tutsi possono rientrare il patria, ma quella che sembrava essere la fine dei loro tormenti si trasforma in realtà nell’inizio di un incubo in quanto, parallelamente, si cominciò a pianificare il genocidio. Una trappola a tutti gli effetti, il cui numero delle vittime è ancora difficile da quantificare. Le armi, quali machete, vennero importati dalla Cina e la stessa Francia appoggiò lo sterminio. Il lancio di una radio chiamata Radio Machete incentivava gli hutu a portare avanti la strage. Uno dei massacri più efferati fu compiuto a Gikongoro: oltre 27.000 tutsi vennero uccisi. Si stima che in un giorno vennero uccise circa ottomila persone di etnia tutsi, circa 333 all’ora, ovvero 5 vite al minuto. Il massacro avvenne con metodi rudimentali e neanche donne e bambini furono risparmiati. Riportiamo la testimonianza di quanto avvenne nel reparto di maternità di un ospedale locale:
“Hanno circondato il reparto maternità, hanno sfondato i cancelli; è bastato sparare alle serrature. Portavano a tracolla delle cartucciere di cuoio di prima qualità, ma non volevano sprecarle. Uccidevano le donne a colpi di machete e di bastone. Se delle ragazze più svelte riuscivano a scappare nella ressa e a saltare da una finestra, le riacchiappavano in giardino.”
La strage si sarebbe protratta fino al mese di Luglio, con la vittoria dell’RPF nel suo scontro con le forze governative. Tante le vite spezzate, eppure sui libri di storia non si parla abbastanza di quanto accaduto, uccidendo un’altra volta chi, in quella terra d’Africa, perse la vita. Tra questi, il padre di una star mondiale della musica che, solo attraverso il testo di un brano, ha riaperto una ferita del suo passato non ancora del tutto cicatrizzata.

COSA ACCOMUNA IL RUANDA E STROMAE? PIERRE RUTARE, SUO PADRE
Singolo del cantante Stromae ed hit estiva di quale estate fa, il testo del brano Papaoutai fa riferimento alla dipartita del padre del cantante, ucciso proprio durante il genocidio in Ruanda. Il padre, Pierre Rutare, è stato un architetto di etnia tutsi. Avrebbe visto il figlio soltanto una dozzina di volte, in quanto viveva insieme ai suoi fratelli e alla madre, Miranda Van Haver, in Belgio. Fu ucciso ad Aprile, all’inizio della strage e lontano dalla sua famiglia. Stromae nel frattempo cresce e diventa un cantante di successo, senza mai far trapelare dettagli del suo tragico passato. Un giorno, però, comincia a passare in radio Papaoutai che, ben presto, avrebbe scalato le classifiche di tanti paesi. Viene cantata, ballata e messa come sottofondo in discoteca, ma tutti ignorarono il testo del brano che ben si discosta dai ritmi coinvolgenti del brano. Durante un intervista, il cantante ha parlato di come il testo racconti dell’assenza della figura paterna, messaggio rafforzato anche dal videoclip, in cui un bambino guarda gli altri suoi coetanei ballare con i propri padri, cosa che il bambino è impossibilitato a fare in quanto il padre, interpretato dallo stesso Stromae è un manichino, incapace quindi di poter danzare con il figlio. Il bambino si chiede ripetutamente dove il padre possa trovarsi, in quanto legato ancora al ricordo del padre che non riesce a lasciar andare:
“Où est ton papa?
Dis-moi, où est ton papa?
Sans même devoir lui parler
Il sait ce qu’il ne va pas
Ah sacré papa
Dis-moi où es-tu caché?
Ça doit faire au moins mille fois
Que j’ai compté mes doigts
Hé!”
La canzone diventa quindi una lettera di uno Stromae ormai cresciuto ma che resta ancora legato al ricordo di un padre che, anche quando era in vita, a causa della distanza, non ebbe modo di passare del tempo col proprio figlio. Il ruolo genitoriale assume nel brano un ruolo chiave, facendo sembrare che lo Stromae bambino voglia fargli un je accuse. Ma in verità in quelle parole intrise di rabbia si nasconde la sofferenza di un bambino che ha visto suo padre morire nel modo più atroce, vedendosi negato l’amore paterno per tutta la vita.
IL PROCESSO
Per molto tempo i fatti del Ruanda furono archiviati, lasciando le vittime del genocidio senza una giustizia per lo meno giuridica. Solo molti anni dopo ci sarebbe stato un processo dove, tra gli imputati, vi era colui che fu soprannominato “il tesoriere del genocidio”. Félicien Kabuga è accusato di aver trovato i fondi per finanziare la strage dei tutsi in Ruanda nel 1994. Il colonnello Théoneste Bagosora, considerato il principale istigatore del genocidio dei tutsi nel 1994, è invece morto all’età di ottant’anni, in Mali, dove era stato detenuto nel carcere di Koulikoro dalla sua condanna nel 2011 a 35 anni di carcere da parte del Tribunale internazionale per il Ruanda. Tra i colpevoli, vi è anche un sacerdote. Tanti, incede, i sindaci e i poliziotti che non ricevettero alcuna condanna nonostante il loro ruolo chiave nella pianificazione della strage. Invece, lontano dal tribunale che ha visto condannare i pianificatori della strage, esiste un altro tribunale, quello morale, che vede come unico imputato un padre la cui morte avrebbe negato al figlio di vivere un’infanzia come quella dei suoi coetanei. Eppure, come intende il brano, Stromae lo assolve poiché, come dice la madre, sarebbe solo lontano per lavoro, ma che a breve sarebbe tornato dalla sua famiglia. Invece, la madre non avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare la cruda verità e che quel padre, tornato nella sua terra per sostenere economicamente la sua famiglia, è morto lontano da casa e da una moglie che lo amava e dai figli che lo attendevano.