In ogni giorno della nostra vita ci rapportiamo continuamente ai prodotti della tecnica, da quando accendiamo il cellulare al mattino a quando ci stendiamo sul divano la sera per guadare la televisione. Crediamo di possederla, di poterla utilizzare per i nostri scopi. Ma è davvero così? La tecnica è diventata ormai lo sfondo nel quale viviamo, è il mondo circostante al quale dobbiamo continuamente adeguarci. Essa ci chiede ogni giorno di modificarci un po’ per stare al passo con i suoi progressi. Ma qual è la sua caratteristica principale? Come sostiene Galimberti “la tecnica non tende ad uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona.” Dunque è proprio questa sua funzionalità a renderla il mezzo di modificazione di ciò che esiste. Da dove nasce però l’intreccio fra tecnica e pensiero umano?
Heidegger e la tradizione metafisica
Secondo Heidegger la dimensione della tecnica nasce come conseguenza della metafisica, di cui Platone e Aristotele sono i cardini. Platone, istituendo un mondo ideale al quale l’uomo si deve rapportare, ha innalzato l’uomo stesso rispetto agli altri enti. L’essere umano infatti attraverso la metafisica, che è la scienza che studia questo mondo ideale, assume un padroneggiamento conoscitivo sul mondo che lo circonda. Ma il conoscere è il primo passo per operare. Questa metafisica che pone l’uomo al suo centro è dunque precorritrice della tecnica in quanto è il primo mezzo di comando sul mondo. Pure in Aristotele continua questo intreccio fra destino della metafisica e destino della tecnica. La sua distinzione fra ciò che è per natura e ciò che è per tecnica secondo Heidegger è l’antitesi che caratterizza tutto il pensiero occidentale. Ciò che è prodotto dell’uomo ha come propria dimensione di venire dal nulla e di tornare al nulla per potere dell’uomo stesso. Questa caratteristica dell’artefatto per Heidegger caratterizza in maniera determinante quello che l’uomo chiama ente.

La tecnica come svelamento
Ma cos’è la tecnica per Heidegger? Cosa vuol dire ‘fare tecnica‘? In primo luogo non significa solamente servirsi di uno strumento. L’uomo, per Heidegger, è in costante rapporto con la natura in quanto è gettato in essa. In questo rapportarsi però egli è capace di percepire che dietro ad ogni cosa è presente un senso: l’essere. Fare tecnica dunque significa portare alla luce la verità dell’essere che sta dietro a quegli oggetti che noi produciamo. La tecnica è pertanto svelamento, apertura di senso. Questo inoltre è anche il compito a cui l’uomo è chiamato nel mondo. Con l’avvento della tecnica moderna tutto ciò è improvvisamente messo in crisi. Se prima l’uomo era produttore di oggetti, adesso egli è diventato provocatore della natura. L’epoca moderna infatti è caratterizzata da questo provocare, da questo chiedere alla natura tutta la sua energia. La tecnica assume una dimensione di riserva di potere. Ed è qui che sta il pericolo. L’uomo, circondandosi di artefatti, perde il significato del suo ruolo nel mondo, poiché vede riflesso se stesso in tutto ciò che lo circonda. Non si sente più in dovere di svelare la verità dell’essere ma unicamente di accumulare potere. Assume dunque una dimensione alienante rispetto alla sua essenza. Ma la tecnica contiene in sé anche il rimedio al suo male. A questo punto per l’uomo non rimane che scegliere. Egli infatti può o appiattirsi in questa dimensione di inautenticità data dal riflettere di se stesso su tutti gli oggetti o continuare a svelare il ‘fondo’ delle cose grazie alla tecnica stessa.

Anders e il dislivello prometeico
Per Günther Anders invece la tecnica altro non è che l’espressione mondiale di come non sia importante il contenuto delle azioni ma la funzionalità nell’eseguirle. Quando c’è una possibilità tecnica essa poi necessariamente si compie. L’esempio più chiaro ne è la bomba atomica. La tecnica attuale ha dunque compiuto un ribaltamento fra mezzi e fini. Non è più il fine che ci siamo proposti a strutturare il mezzo per eseguirlo, ma è il mezzo stesso di cui possiamo disporre a crearci un fine. Ma quanto siamo consapevoli dei mezzi che abbiamo? Nel suo libro “L’uomo è antiquato” Anders sostiene che un qualsiasi oggetto tecnico raccoglie in sé un potenziale di intelligenza umana decisamente superiore all’intelligenza del singolo individuo che utilizza quell’oggetto. Ci serviamo di prodotti di cui non sappiamo quasi niente riguardo al funzionamento. Da qui nasce proprio il concetto di dislivello proeteico. Il divario presente fra l’uomo e il suo prodotto è talmente radicalizzato da far apparire l’uomo sempre antiquato rispetto alle sue produzioni. Questo anacronismo umano comporta un profondo senso di inadeguatezza, di desolazione. Secondo Anders infatti da qui nasce il grande problema della nostra società. Ormai dunque non si tratta più di domandarsi cosa noi possiamo fare della tecnica, ma cosa può fare la tecnica di noi stessi.
Dario Montano