Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna pressano per il federalismo fiscale rafforzato, intanto la Corte dei conti si oppone.
Luca Zaia non è un novellino della politica, attualmente governatore del Veneto, inizia la sua carriera come consigliere comunale di una città di seimila anime, dal 1998 al 2005 è presidente della provincia di Treviso e durante l’ultima legislatura di Berlusconi è stato ministro delle politiche agricole e forestali. Leghista duro e puro, tanto per idee quanto per modi, nel 2010 il Corriere della sera riporta una sua dichiarazione: “E’ una vergogna spendere 250 milioni di euro per i quattro sassi di Pompei”, vero che tale dichiarazione fu fatta in conseguenza di una riduzione dei fondi d’emergenza per un alluvione che colpì il Veneto, tuttavia quanto asserito la dice lunga sulla dimensione di questo politico. Qualche ora fa, tramite un’intervista al Corriere, ha dato un “ultimatum” al Movimento 5 Stelle, stanco “dell’ennesimo ritardo nel dare via libera all’autonomia della sua regione”:
“Ai grillini voglio dire che è finita la ricreazione[…] li sfido pubblicamente a far uscire la loro proposta!”.
Il federalismo regionale è una realtà. Una realtà a cui l’Italia è arrivata gradualmente, percorrendo quali gradini siamo arrivati a questo punto?
Stati centralisti e stati autonomisti
In base all’autonomia degli enti locali possiamo distinguere Stati centralisti e Stati autonomisti, i primi concentrano la maggior parte delle funzioni amministrative negli organi centrali dello Stato (il regime fascista era centralista), gli Stati autonomisti invece tendono a delegare le funzioni amministrative proprie di un determinato territorio ad enti specificamente preposti (regioni, provincie, comuni…).
Il modello autonomista ha due grandi vantaggi: innanzitutto ogni ente territoriale può adottare soluzioni diverse a seconda delle proprie esigenze; e, forse ancora più importante, c’è un maggior controllo dell’elettorato sull’attività politica del Paese (le elezioni comunali e regionali, ad oggi, sono un indice indispensabile per determinare gli equilibri maggioranza-opposizione in Parlamento).
La Costituzione italiana del 1947 dedica un intero titolo ai rapporti tra Stato ed enti locali (il titolo V), all’articolo 114 si enuncia la divisione della Repubblica in regioni, provincie e comuni, all’articolo 117 troviamo un lungo elenco di materie su cui lo Stato ha legislazione esclusiva, alcune di queste possono essere delegate (principio del parallelismo enunciato anche nell’articolo 118). Insomma la Costituzione del 1947 disegna uno Stato orientato verso il centralismo.
Le cose iniziano a cambiare…
L’inizio degli anni ‘90 è un periodo di grande cambiamento per la politica italiana, la DC si sgretola, il PCI diventa “La Quercia”, l’MSI diventa Alleanza nazionale, entrano nuovi soggetti in scena (Forza Italia, Lega Nord…), inizia la seconda Repubblica!
La legge 81 del 1993 introduce l’elezione diretta dei sindaci (in precedenza era indiretta).
Nel 1997 viene approvata la legge Bassanini (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), una serie di norme tese a semplificare l’atto di delegare la potestà legislativa alle regioni, è il primo grande passo verso il federalismo fiscale.
Nel 2000 viene pubblicato il TUEL (Testo Unico Enti Locali), un codice di 276 articoli tesi a regolare i rapporti tra Stato ed enti locali alla luce delle nuove riforme.
Nel 2001 ci sarà la tappa più importante di questo percorso, la riforma del titolo V della Costituzione, gli articoli 114, 117, 118 e 119 vengono ridefiniti: l’articolo 114 e 117 affermano che le regioni sono enti con “propri statuti, poteri e funzioni”; l’articolo 118 enuncia il principio di sussidiarietà in luogo al principio di parallelismo, secondo la nuova norma l’ente di grado superiore interviene solo nel caso in cui l’ente di grado inferiore non riesca ad agire con le risorse proprie; l’articolo 119 (questo l’aspetto più importante della riforma) stabilisce l’autonomia finanziaria di entrate e spesa.
L’autonomia finanziaria ha grandi implicazioni dal punto di vista sociale: se la regione ha libertà di entrate (può stabilire l’importo delle proprie tasse) è proprio perché lo Stato, nel il tempo, ha delegato ad essa sempre più materie (l’esempio più eclatante a tal proposito è la sanità). Il rischio è chiaro: le regioni più povere (quelle la cui cittadinanza ha meno potere contributivo) potranno permettersi meno servizi, il Welfare State non sarà per tutti.
Le prospettive odierne
Ad onor del vero sono state adottate diverse misure per prevenire gli squilibri tra regioni diverse, come ad esempio i fondi perequativi (disposti dall’art. 119 della costituzione) per determinate materie rilevanti come l’istruzione e la sanità.
In questi giorni il Parlamento sta discutendo la possibilità di una “autonomia rafforzata” per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (in base a degli accordi preliminari presi dal governo Gentiloni il 28 febbraio 2018), le tre regioni chiedono una discrezionalità maggiore sia sulla gestione delle entrate (tasse regionali più cessione di quota IRPEF), che della spesa (sanità, infrastrutture, istruzione).
Un primo “no” (meno perentorio di quello che sembri) è comunque pervenuto dalla Corte dei conti, mentre dal leader pentastellato Luigi Di Maio è arrivato un netto ottimismo: “è nel contratto [di governo n.d.a.] e si farà […] nessun blocco, quando si governa in due le cose si fanno in due”, mossa questa che verosimilmente farà perdere ulteriore credibilità a M5S nel meridione (proprio dove hanno più consensi).
C’è una netta differenza tra autonomismo e federalismo, quando parliamo di autonomismo il soggetto attivo è lo Stato: è lo Stato che delega il suo potere agli enti locali. Quando parliamo di federalismo invece partiamo dal basso, sono gli enti locali che delegano il loro potere allo Stato. L’articolo 114 diceva (prima del 2001) “la Repubblica si riparte in regioni province e comuni”, oggi dice “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province etc…”.
Un cambio di prospettiva abbastanza grande che la dice lunga su quanto il nostro Paese sia proteso verso un federalismo ideologico oltre che economico, soprattutto considerato che i suoi principali fautori sono state le forze nazionaliste (dette oggi sovraniste) e conservatrici, sì, proprio quelle che, quando si parla di immigrazione, agitano il tricolore come in curva e inneggiano all’identità nazionale italiana, uno Stato spezzettato e squilibrato che identità potrà avere?
Fabio Cirillo