Le radici del dramma d’amore di Lisabetta di Messina trasfigurato nel Decameron di Pasolini

E’ la storia di un amore infelice quella di Lisabetta di Messina, che affonda le sue radici nella leggenda della testa di moro e che sarà materia del cinema di Pasolini.

La chiusa della quarta novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio cita la canzone popolare meridionale: “Qual esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta…”. La novella favellata da Filomena è infatti ispirata dall’affascinante leggenda siciliana della testa di moro. Più tardi l’eclettico Pier Paolo Pasolini, dopo una selezione rigida tra le 100 novelle, includerà l’orrore e la reticenza della novella nel film omonimo all’opera boccacciana.

La leggenda della testa di moro

Sia che ti trovi a passeggiare per le vie di Taormina o per quelle di Caltagirone, se volgi lo sguardo in sù, tra le balconate spiccano prodotti manifatturieri artigianali, suggestivi e colorati, noti come teste di moro. Le “graste” non sono frutto arbitrario e fantasioso di un’arte raffinata, ma risultato di una leggenda tramandata di generazione in generazione. A cavallo tra l’Alto e il Basso Medioevo, più precisamente nell’anno 1000, i Mori dominavano la Sicilia, e nel quartiere arabo di Palermo “Al Hàlisah”, una giovane fanciulla siciliana, dedita alla cura delle sue piante, che crescevano rigogliose sul suo balcone, fu notata da un Moro. Lo sfacciato corteggiatore fece breccia nel cuore della fanciulla ritrosa, ma non troppo, fino a quando questa apprese dell’imminente partenza dell’amato in Oriente, dove l’attendevano moglie e figli. La gelosia commista all’ira funesta portarono la fanciulla alla vendetta: mentre il bel moro giaceva, venne decapitato brutalmente, e così la fanciulla si assicurava di tenere per sempre con sé il suo caro e di prendersene cura. Credette la testa simile a un vaso e vi piantò, non una pianta a caso, ma un germoglio odoroso di basilico, l’erba dei sovrani. Anche questa, in guisa delle altre piante, adornava il balcone e riscuoteva l’invidia di chi, mirandola, la copiò.

Lisabetta di Messina (IV,5)

Seppur Boccaccio attinga dalle acque della leggenda, la sua novella è pura invenzione, scardina in tutto tranne che per l’orrore. Filomena, quarta fabulatrice della quinta giornata, in cui gli amori infelici fanno da filo narrativo, tratta della figura fragile e appassionata di Lisabetta di Messina. Ella è protagonista e vittima di un dramma d’amore: i suoi tre fratelli si accorgono del rapporto tra la fanciulla siciliana e il loro lavorante Lorenzo, e per preservare la famiglia dalle maldicenze e la loro posizione, approfittano del momento opportuno per far fuori Lorenzo. La scena dell’omicidio è fissata macabramente dall’assenza di dialogo e dalla fulmineità dell’atto. Lisabetta si insospettisce a motivo della lunga dimora di Lorenzo e, seppur con tono dimesso, chiede ragione ai fratelli. Tormentata dal dubbio, una notte sogna il fantasma dell’amato, che le rivela quanto accaduto e le indica il luogo di sepoltura. La mattina, levata, e avendo ottenuto dai fratelli il permesso di allontanarsi, trovato il corpo di Lorenzo, ne stacca la testa con un coltello, che contrariamente dalla leggenda sembra essere simbolo di rinascita e non di morte. Riconobbe che non era quello il momento e il posto per piangere, così  portò il capo con sé, e dopo averlo lavato con le sue lacrime, l’unico mezzo con cui Lisabetta da voce alla sua psicologia, e basciato con basci che rimandano a quelli tra Catullo e Lesbia, lo inserisce all’interno di un vaso di terracotta e vi pianta dei cespi di basilico. Più la testa si chiude, più Lisabetta implode su se stessa e deperisce. In un intreccio reticente, i fratelli sottraggono l’oggetto macabro di culto alla sorella che si consuma nel dolore. L’amore per Lorenzo finisce perché è finita anche Elisabetta.

Un film di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini, personalità eclettica, nella dimensione cinematografica ha saputo guardare al Decameron di Boccaccio con un approccio critico e apportando non poche modifiche, ad esempio facendo una riduzione della geografia e della lingua col perenne idioma napoletano, piuttosto che romanesco. Nel 1971 esce nelle sale cinematografiche il suo licenzioso Decameron, composto da 9 episodi, corrispondenti alle stesse novelle boccacciane. Forse l’episodio di Lisabetta di Messina, innescato verso la fine del film, parte 2, è quello più fedele al Decameron per il suo vivo realismo: la razionale freddezza di Lisabetta non appena recide il capo dal corpo di Lorenzo, ad esempio. La reticenza fa da denominatore comune anche in Pasolini: Lisabetta non sa che i fratelli sanno della sua passione per il lavorante, e quando oniricamente la fanciulla scopre del nefasto destino dell’amato, i fratelli non sanno che lei sa. La scena dell’uccisione tanto macabra nella novella boccacciana è omessa, Pasolini invece si prende la libertà di descrivere l’uscita dei tre fratelli con Lorenzo come una battuta di caccia. Episodio tanto fulmineo quanto la novella.

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