La ricerca dalla felicità è l’obiettivo di tutti gli uomini, dalla notte dei tempi. Spesso ci troviamo invischiati in situazioni difficili per provare a raggiungere una sorta di mezza felicità, una felicità apparente, oppure piena ma troppo breve. Molti sarebbero disposti a vendere l’anima pur di arrivare a sfiorare con la punta dei polpastrelli la sostanza fumosa ma densa della felicità vera e duratura, anche se poi bisognerebbe chiedersi se l’animo umano sarebbe davvero pronto ad accogliere una tale pienezza. Ogni grande e piccolo uomo si è inerpicato lungo questi ripidi sentieri, molte sono state le strade scovate e le scorciatoie passeggere, ma qualcuno sarà mai stato davvero felice? Speriamo di sì, altrimenti l’umanità sarebbe messa peggio di quanto già è.
Il film.
G. Muccino nel 2006 ha confezionato un bell’esempio di ricerca della felicità, mettendo sullo schermo un padre in disgrazia ( Will Smith ) accompagnato, mano nella mano, dal figlioletto di 5 anni (il vero figlio di W. Smith). Vediamo avvicendarsi i due protagonisti in una New York contemporanea e ostile che sembra mettere continuamente i bastoni fra le ruote a questo povero padre. Will Smith tuttavia interpreta un uomo che ha deciso di farcela, di provare a continuare a sognare e vivere la sua vita per il bene del figlio, che gli garantisce un pezzettino di felicità, perché il figlio non lo abbandona. Peripezie e drammi per rincorrere qualcosa di più dorato dell’oro, preservandone una piccola pepita in questo rapporto padre-figlio. Ma fuori dagli schermi, come possiamo provare ad assaggiare questo miele?

La psicologia accorre in nostro aiuto con un medkit composto da soli due elementi. Si vogliono proporre qui due concetti contenuti nei testi di psicologia sociale e cognitiva, un paio di concetti abbastanza trasversali in queste materie, e della cui potenza e potenzialità non si è sempre molto consapevoli. Potrebbero apparire banali, magari semplici, ma in verità hanno davvero un grosso potere. Certo non è che basta leggerli e conoscerli per vedere cambiato il modo in cui state nella vostra quotidianità, devono essere ragionati e assimilati per permettere ai vostri neuroni di riorganizzarsi meglio. Bastano questi due fattori per cambiare radicalmente il prodotto delle vostre vite, non è magia, è scienza: stiamo parlando di agentività e autoefficacia.Il concetto di agentività consiste nella capacità di saper agire in maniera attiva, cosciente, consapevole sull’ambiente in cui si vive, trasformando gli ambienti, i contesti e le circostanze per renderli più aderenti alle proprie necessità e bisogni. Secondo la teorizzazione di Bandura, l’agentività umana opera in un sistema causale che coinvolge tre classi interdipendenti:
- i fattori personali interni, costituiti da elementi cognitivi, affettivi e biologici
- il comportamento messo in atto in un dato contesto
- gli eventi ambientali che circoscrivono l’individuo e la condotta
Questo interscambio attivo tra soggetto e ambiente aumenta, come conseguenza diretta, il senso di autoefficacia, ossia il senso di essere attivi operatori e padroni della propria vita, che il destino non esiste e siamo noi a scriverlo per noi ( per dirla con una frase banale ). E’ importante avere il senso di appartenenza a dinamiche esterne più grandi di noi, nelle quali siamo invischiati per il semplice fatto di essere qui ora, e la consapevolezza del dovere di prenderne parte in maniera attiva e produttiva per dare forma a noi e ai nostri ambienti, ed evitare di lasciarsi andare alla passività catatonica di una vita gestita da altri.
“Un uomo sta affogando in mare. Passa una barca e chiede all’uomo: “Ti serve aiuto?” e lui: “No, no, Dio mi salverà”. Passa un’altra barca e chiede all’uomo: “Ti serve aiuto?” e lui: “No, no, Dio mi salverà”. Poi l’uomo annega e va in Paradiso. L’uomo chiede quindi a Dio: “Ma perché non mi hai salvato?” e Dio: “Ma se ti ho mandato due barche a salvarti, stupido!”
Giuseppe Benedetto.