La Mesopotamia è sempre stata in antichità una zona di numerosissimi incontri di diversi popoli e tradizioni, il luogo di un variegato ‘melting pot’ di civiltà e di miti dalla più disparata origine; in questo clima così fecondo il popolo ebraico ha accolto e modificato, recepito e restituito, molti e diversi modelli di spiritualità, di leggende, di narrazioni riguardanti il reale e la storia. Uno dei miti più conosciuti, frutto di questo continuo interconnettersi di diverse religioni, ri-approdato recentemente nel nostro immaginario quotidiano per mezzo dei movimenti femministi, è il mito di Lilith, ritenuta la vera prima donna del genere umano. Creata contemporaneamente all’uomo, e della sua stessa materia, Lilith si ribellò ad Adamo che voleva ergersi al di sopra di essa, sia nell’unione carnale sia a livello simbolico. I due contendenti allora chiamarono in causa Dio e gli chiesero chi avesse ragione ma quest’ultimo, in quanto maschio, si schierò al fianco di Adamo. Lilith allora, dopo aver bestemmiato il nome di Dio, fuggì dall’Eden per vivere liberamente la propria autonomia. Questo episodio conflittuale darebbe una soluzione ad un grattacapo che da secoli ossessiona gli studiosi della Bibbia cristiana e della Torah ebraica: il libro della Genesi, primo libro sacro per entrambe le religioni, presenta rispettivamente nel primo e nel secondo capitolo due creazioni ‘diverse’. Nella prima creazione leggiamo: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Da ciò si può presumere che i due sessi vengano creati insieme, e che quindi siano in un certo senso pari. Il secondo capitolo invece articola la narrazione che noi tutti conosciamo, quella della creazione di Eva dalla costola di Adamo, che quindi porrebbe la donna in secondo piano rispetto all’uomo. Il secondo capitolo è una semplice puntualizzazione, una lente di ingrandimento su quanto enunciato nel primo, o stiamo parlando di due donne e di due momenti creativi differenti? Una precisazione è di dovere: il mito di Lilith viene narrato in altri testi della tradizione ebraica, libri assenti tra i testi sacri canonici sia della Torah, sia della Bibbia. Come mai quest’omissione? Due sono le opzioni: o la figura di Lilith fa paura, e quindi viene censurata e mostrata solamente una donna subordinata all’uomo, o tale figura è ritenuta superflua, essendo già Eva pari dell’uomo. La sottomissione della donna rispetto all’uomo è causata infatti non da un’effettiva inferiorità, ma dalle necessità che conseguono dalla caduta dall’Eden, dove la donna vive in funzione del proprio uomo e della sua prole e l’uomo a sua volta vive in funzione della sua donna e della sua famiglia, l’uno lavorando e l’altra gestando.

Al di là comunque di queste speculazioni di carattere esegetico, Lilith (presente ancora nel corredo mitologico ebraico nelle sembianze di un demone divora bambini) ci pone davanti uno spettro antico che oggi più che mai si fa sentire in tutto il suo tragico carattere: ieri come oggi la guerra dei sessi attraversa i secoli, squarciandoli e senza offrire una reale soluzione. Lilith infatti non è l’unico esempio di una lacerante frizione tra uomo e donna presente nell’antichità: il mito delle Amazzoni, dove una società di sole donne trucida gli uomini che si affacciano al loro territorio, la tragedia euripidea de “Le Baccanti”, dove le donne di Tebe si radunano sul monte e si pongono come libere, per mezzo di un intervento dionisiaco, contro il governo tradizionale, le vicende tra uomini e donne di Sparta narrate da Aristotele, dove le donne un passo alla volta si appropriano del governo spartano, sono tutti inaspettati esempi di come i fatti della nostra contemporaneità siano tutt’altro che isolati. Questi eventi di scontro, drammaticamente, non terminano mai in una sana cooperazione tra uomini e donne: presso le Amazzoni, i rapporti con gli uomini si riducono a due mesi primaverili, i cui le guerriere e gli uomini del vicino popolo dei Gargareni si uniscono ritualmente affinché possano generare figli, in un incontro segreto, al buio, dove i due futuri genitori non si possano riconoscere; nella tragedia di Euripide le donne, ebbre dello spirito del dio e fiere delle loro capacità di caccia, superiori anche a quelle degli uomini, dilaniano i corpi dei loro stessi figli; Sparta, a causa del diverso sistema valoriale imposto dal governo femminile e dimentica dell’antico rigore militare, crolla sotto gli attacchi dei suoi avversari; persino la vittoria di Perseo sulla gorgone Medusa è a volte letta come uno scontro tra uomo e donna, in questo caso tra un uomo e un potere di tipo matriarcale.

Stiamo parlando di un conflitto profondo, che nasce con l’avvento del genere umano, tra un continuo proporre e abbattere un differente modello di donna, tra donne che tentano di affermare la loro unicità e indipendenza e uomini che reagiscono violentemente a ciò che ai loro occhi si trasforma in un attacco al loro potere, sfociando in millenni di società in prevalenza pesantemente patriarcale, in secoli di persecuzione nei confronti della donna solo perché donna, e quindi vicina al male della carne e ai poteri della stregoneria. Un prototipo di donna che, privato di ogni carattere positivo che poteva offrire in origine, segrega la donna presso il focolare domestico e le vieta qualsiasi genuino atto propositivo, tacciandola di scostumatezza nell’inammissibile caso di un tentativo di emancipazione. Un uomo visto a sua volta come un marito-padrone, uno schiavista molesto e volgare, uno stereotipo di rudezza a cui ogni uomo deve adeguarsi per essere considerato tale. Qual è la causa profonda di questa guerra? Chi può dirlo. Vuoi l’invidia per il potere di generare vita, vuoi la non accettazione della subordinazione, vuoi l’arroganza che contraddistingue sia l’uomo che la donna in quanto esseri umani, vuoi la sete di un potere indiscusso. Sta di fatto che la storia e le leggende che essa ci consegna ci propongono una lezione amara: alla guerra dei sessi non si pone rimedio con uno scontro che cerca un vincitore assoluto, con l’affermazione violenta di un modello di uomo o di donna destinato a dominare, perché sempre in una situazione dove c’è un dominatore, il dominato prima o poi si ribellerà. Per questo motivo quindi la contemporaneità, nel ripresentarci il medesimo conflitto, ci chiede di portare a termine una sfida impegnativa, quella di sanare questa ferita umana troppo umana. Una sfida che non può essere vinta sostituendo il potere dell’uomo con quello della donna, che deve uscire dalla logica del dominio coatto ed unico, come ci insegna la storia dell’essere umano: è un compito che per essere esaudito presuppone che uomini e donne scoprino finalmente di poter collaborare per costruire insieme una nuova società, dove ad entrambi siano riconosciuti gli stessi diritti e doveri, dove gli stereotipi di genere lascino il posto ad una sana libertà individuale di auto-affermazione, dove dinnanzi ad una qualsiasi proposta non si debba pensare se è una ‘cosa da maschi’ o una ‘cosa da femmine’, ma che si possa analizzare criticamente e valutare positivamente o meno in quanto una ‘cosa da esseri umani‘.
Pol