Le vicende che gli operai dell’Ilva stanno affrontando in questo periodo non possono che essere analizzate sotto un punto di vista diverso da quello empirico. Cosa direbbero Marx e i suoi sostenitori davanti a questi eventi?
Il caso Ilva può essere riassunto come una guerra ancestrale tra operai e grandi investitori. Mentre i primi, considerati da Marx quasi come schiavi, sono dominati dal prodotto che loro stessi creano, i secondi, dimenticando che le merci sono il frutto del lavoro umano, mettono in secondo piano qualsiasi rapporto antropico.
Premessa
Dopo l’esproprio della famiglia Riva, accusata di aver violato leggi ambientali e di sicurezza, l’Ilva nel 2018 è caduta nelle mani del colosso mondiale ArcerolMittal. Quest’anno la multinazionale indiana ha annunciato la volontà di rescindere il contratto e riaffidare l’azienda siderurgica allo Stato. Nella lettera di recesso si legge: “Saranno avviate tutte le operazioni necessarie per realizzare l’ordinanza e graduale sospensione delle attività produttive. Il contratto è risolto di diritto per sopravvenuta impossibilità ad eseguirlo e in via di ulteriore subordine se ne chiederà la risoluzione giudiziale per i gravi inadempimenti delle concedenti e/o per eccessiva onerosità della nostra prestazione”.
Ma perché questa improvvisa decisione dopo neanche un anno? La prima motivazione è collegata al passo indietro effettuato dal ministro Luigi Di Maio riguardo l’immunità penale sul piano ambientale inserita nel decreto imprese. Il secondo motivo riguarda invece la probabile chiusura dell’altoforno 2 per la mancata adozione delle prescrizioni di sicurezza: nel 2015 in questo altoforno ci fu un incidente mortale che portò la Procura al necessario sequestro senza facoltà d’uso. Oggi però, nonostante l’Ilva abbia ottenuto la facoltà d’uso grazie a un ricorso, nella lettera di recesso ArcelorMittal ha scritto che non avendo ottenuto alcuna conferma da parte dello Stato a proposito dell’Afo 2, quest’ultimo andrebbe chiuso provocando così 3500 nuove casse integrazioni.
Cosa succede adesso?
ArcelorMittal, per restare a Taranto, ha messo lo Stato di fronte a condizioni pesantissime da rispettare. Quella che più ha fatto indignare è stata quella che riguarda la diminuzione della forza lavoro del 40% entro il 2023, sarebbe a dire un totale di 4700 esuberi entro 3 anni di cui circa 3000 già nei prossimi mesi. I sindacati non hanno neanche voluto aprire un confronto, per loro bisogna rispettare investimenti e livelli occupazionali promessi nel 2018. Al rifiuto dei metalmeccanici si è aggiunto quello del governo, il ministro dello sviluppo economico Patuanelli ha espresso la sua delusione dopo il colloquio con i vertici della multinazionale indiana: “Questa non è l’idea che ha il Governo sullo stabilimento. Riteniamo che la produzione a fine piano debba essere più alta, arrivando almeno ad 8 milioni di tonnellate”. Anche il premier Conte si è trovato in disaccordo con le condizioni che vorrebbe imporre Arcelor: “Il progetto che è stato anticipato in un incontro non va assolutamente bene, mi sembra sia molto simile a quello originario. Lo respingiamo e lavoreremo come durante questo negoziato agli obiettivi che ci siamo prefissati col signor Mittal e che il signor Mittal si è impegnato personalmente con me a raggiungere, e ci riusciremo“.
Il governo dal canto suo ha subito esposto il suo piano per risolvere la questione: due altoforni in esercizio e un terzo forno elettrico alimentato con il preridotto, produzione a 8 milioni di tonnellate e livelli occupazionali garantiti. La differenza principale è proprio sul tema degli esuberi che è strettamente collegato a quello della produzione, infatti se Arcelor dovesse tener conto del progetto da loro auspicato nel 2018 (8 milioni di tonnellate annue di acciaio prodotte) non potrebbe eseguire gli esuberi che hanno inserito nel nuovo disegno. Proprio per questo dopo poco più di un anno Mittal ha abbassato le aspettative di produzione da 8 a 6 milioni, per poter licenziare abbastanza forza lavoro che, a loro dire, fa perdere all’azienda 2 milioni di euro al giorno.
Il marxismo negli operai dell’Ilva
A seguito del programma di ArcelorMittal i metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato 32 ore di sciopero in modo da consentire così la partecipazione di tutti i lavoratori alla manifestazione nazionale a Roma prevista per il 10 dicembre. Ma è possibile filosofeggiare riguardo queste scelte? O sono solo posizioni dettate da un pragmatismo generale? Il distacco che gli operai hanno costruito per Marx ha radici più sentimentali che materiali: il lavoratore assume un distacco nei confronti del proprio lavoro e delle condizioni in cui tale lavoro si realizza perché vende una parte della sua giornata lavorativa al capitalista e ciò che produce non gli appartiene più; c’è un’eliminazione del rapporto umano, tutto è basato sul profitto. Marx diceva che per il capitalismo il lavoro è l’unico elemento che misura il valore del bene, il problema però è che il profitto e la rendita del lavoratore non remunerano il lavoro concretamente svolto: una parte del lavoro non viene pagata perché il plusvalore deve essere il più alto possibile.
La consapevolezza che spinge gli operai a partecipare agli scioperi, mettendo da parte l’effimero guadagno giornaliero, è nata grazie a una corrente di pensiero con un’origine marxista: l’operaismo. Base di questa corrente è la valutazione della classe operaia, considerata come motore dello sviluppo economico e capitalistico. I capitalisti hanno da sempre cercato tramite regole o leggi di reprimere le lotte della classe operaia senza ottenere grandi risultati. In questo caso Mittal ha tentato una sorta di precettazione nei confronti dei metalmeccanici dell’ex Ilva vietandogli di partecipare allo sciopero. Tentativo completamente inutile visto che Roma si è riempita di un impulso comune dettato da una voglia di rivalsa ma soprattutto da un bisogno di tranquillità che a questi uomini e alle loro famiglie manca da quasi 5 anni.
Antonio Mazzotta