L’arte non è più qualcosa di ovvio. Non è più un qualcosa di godibile, che deve allietare, ad essa bisogna ormai approcciarsi attraverso la fatica del concetto, cogliere i suoi momenti e le sue sorti spingendosi verso di essa e non viceversa.
Young signorino è l’emblema della disartizzazione dell’arte, di quel momento in cui il preartistico riemerge dall’arte e la conquista mettendola al proprio servizio. Le sue neodissonanze sia musicali che letterarie ci invitano a cogliere quella connessione ormai imprescindibile tra arte e filosofia, tra dimensione artistica e concettuale.
Il di più
Ascoltando un brano di Young Signorino (dopo essere rimasti inorriditi e scioccati) si comprende immediatamente cosa il filosofo francofortese T.W. Adorno volesse dire all’inizio del suo intricato operone riguardo la Teoria estetica: “E’ diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo rapporto con l’intero, nemmeno il suo diritto a esistere”. Un’opera d’arte non è un qualcosa di statico, ma di soggetto al divenire, ciò che è canonizzato come “bello”, come opera d’arte, di solito già non lo è più o perlomeno ha cambiato funzione rispetto a ciò che era nel momento della sua apparition: il duomo di Milano oggi non è più ciò che era quando il primo fedele accingendovisi ad entrare ha alzato la testa contemplandolo, lo stesso vale per tutti i quadri e le sculture che oggi sono meri oggetti di consumo musealizzati preda degli smart-phone fotografanti dei turisti, lo stesso vale per i concerti Brandeburghesi di Bach e per l’Aida di Verdi. Questo perché le opere d’arte non sono un qualcosa di unitario, conciliato e conciliante ma caratterizzate da momenti, da fratture contrastanti e non congiungibili che chi vuole pensare di parlare di arte deve saper individuare: “L’opera d’arte in sé, non soltanto per la sua posizione nella storia reale come vuole lo storicismo, non è un essere sottratto al divenire, ma in quanto essente è un qualcosa che diviene. Ciò che in essa si manifesta è il suo tempo interno, e l’esplosione della manifestazione ne fa saltare la continuità. Essa è mediata con la storia reale del proprio nucleo monadologico. Il contenuto delle opere d’arte può chiamarsi storia. Analizzare opere d’arte significa la stessa cosa che rendersi conto della storia immanente accumulata al loro interno.” Arriva un certo momento in cui ogni opera fallisce, in cui perde il suo carattere epifanico, stupefacente della prima volta, coagulandosi con la canonizzazione a “opera d’arte”. Uno dei momenti fondamentali dell’opera d’arte è quello del brivido, dell’apparition, del suo essere un qualcosa di spirituale: “La natura ha la propria bellezza in ciò che sembra dire di più di quel che essa è. Strappare questo di più alla sua contingenza, impadronirsi della sua apparenza, determinarla in quanto apparenza per se stessa, anche negarla come irreale, è l’idea dell’arte.” Con l’opera d’arte è possibile catturare quel di più che nel mondo naturale attraverso la mera intuizione empirica non riusciamo a cogliere poichè lo adeguiamo alla soggettività, insomma l’opera d’arte cattura quella alterità che non riusciamo ad afferrare. Dunque un opera d’arte è più di quel che è, è più dei materiali di cui è composta, è una cosa tra le cose ma è anche più di questo: ” Il momento dell’espressione nelle opere d’arte non è comunque la loro riduzione al loro materiale in quanto qualcosa di immediato, ma è oltremodo mediato. Le opere d’arte diventano manifestazioni in senso pregnante, manifestazioni di qualcosa d’altro, quando l’accento cade sull’irreale della propria realtà. Il carattere di atto ad esse immanente conferisce a loro qualcosa di momentaneo, di improvviso, siano o meno realizzate nei loro materiali come un che di duraturo. La sensazione di venir-sorpresi al cospetto di ogni opera significativa lo registra.” L’azione bloccante del concetto, dell’obiettivazione dell’opera d’arte rende possibile il contenimento di questo di più, rende possibile il suo salvataggio che al tempo stesso comporta la sua disfatta, fa sì che il preartistico sia presente nell’opera d’arte venendo soggiogato dall’arte, è l’azione dell’Illuminismo: “L’illuminismo è sempre accompagnato dalla paura che possa scomparire ciò che l’ha messo in moto e che minaccia di essere inghiottito da esso, la verità. […] L’attimo della manifestazione nelle opere d’arte è tuttavia l’unità paradossale ovvero la parità tra fuggevole e conservato”. Questo di più che l’arte cattura, ciò per cui è un qualcosa di più di ciò che è, è la sua dimensione auratica, la sua dimensione spirituale, è ciò per cui l’arte sorprende e fa strabiliare, è ciò che sorprende ma che poi fa ricadere nel disincanto, è l’attimo di felicità che subito diventa noia: è ciò che ti danno i fuochi d’artificio e l’atto sessuale.
Disartizzazione dell’arte: l’aura non c’è
L’arte moderna è l’arte della perdita della dimensione auratica dell’arte. Le opere non possono più meravigliare e strabiliare, non possono più destare stupore. Esse non esprimono nulla, non sono portatrici di nessun messaggio, presentano il disincantamento, il fallimento inevitabile. Guernica o le poesie di Marinetti non dicono nulla, mostrano soltanto tutto questo. Come Walter Benjamin faceva notare, i rivolgimenti della tecnica e dei rapporti di produzione moderni non potevano far altro che dare vita a un’arte che facesse balenare davanti agli occhi serie di immagini sconnesse a ripetizione degna del caos e della velocità della metropoli e del consumo (si veda il dadaismo degno antesiniano del cinema e di instagram). Si pensi a quel che sempre Benjamin diceva riguardo l’artista moderno: egli non è più mago autore dell’incanto ma chirurgo assemblatore di pezzi. Adorno scrive: “Quanto più è diventata sostanziale la spiritualizzazione nell’arte, tanto più energicamente essa ha rinunciato allo spirito, all’idea, nella teoria di Benjamin non diversamente che nella prassi poetica di Beckett. […] Solo l’arte radicalmente spiritualizzata è ancora possibile, tutta l’altra e puerile.” L’arte non può più essere un qualcosa che riconduce al piacevole, al godimento, un qualcosa riconducibile unicamente all’intuizione, all’arte ci si può accostare soltanto attraverso la fatica del concetto (cogliere i momenti dell’opera), poiché in essa, soprattutto nell’arte moderna non c’è più nulla di godibile: “Kant ha già formulato la formula dell’intuitività nella Critica della facoltà di giudizio: ‘Bello è ciò che piace universalmente senza concetto’. Il ‘senza concetto’ si potrà collegare con il piacevole, come dispensa da quel lavoro e da quella fatica che il concetto ha imposto non solo a partire dalla filosofia hegeliana. Benché l’arte da tempo abbia relegato l’ideale della piacevolezza tra le codinerie, la sua teoria non ha voluto rinunciare al concetto di intuitività, monumento del venerando edonismo estetico, malgrado da tempo ogni opera d’arte, ormai anche la più antica, esiga il lavoro dell’osservazione da cui la dottrina dell’intuitività voleva dispensare.” Le opere d’arte non devono soddisfarci, un opera d’arte non si può godere, si deve capire: “La dottrina dell’intuizione è sbagliata perché attribuisce fenomenologicamente all’arte ciò che essa non compie. Non la purezza dell’intuizione è il criterio delle opere d’arte, ma quanto profondamente esse danno corso alla sua tensione con i momenti intellettivi che ineriscono ad esse.” Ormai il rapporto con l’opera d’arte è diventato come quello tra merce e consumatore, nell’opera d’arte il soggetto vede se stesso e la soddisfazione dei propri bisogni proprio come il consumatore vede nella merce l’oggetto di godimento. Adeguando l’opera alla soggettività, essa viene squalificata, smette di essere ciò che è per la soddisfazione personale e soggettivistica del consumatore: “Il consumatore può proiettare a piacere i propri moti dell’animo, residui mimetici, su ciò che gli viene posto innanzi. Fino alla fase dell’amministrazione totale il soggetto che osservava, ascoltava, leggeva una creazione, doveva dimenticarsi, diventare indifferente a sé, spegnersi in essa. L’identificazione che si realizzava non aveva come ideale che esso rendesse l’opera d’arte uguale a sé, ma che rendesse se stesso uguale all’opera d’arte. In ciò consisteva la sublimazione estetica; Hegel ha chiamato tale modo di comportarsi in generale libertà nei confronti dell’oggetto. Proprio così egli ha reso onore al soggetto, che nell’esperienza spirituale diventa soggetto attraverso la propria alienazione, al contrario del desiderio piccolo-borghese che l’opera d’arte gli dia qualcosa. Come tabula rasa di proiezioni soggettive l’opera d’arte viene però squalificata.” Non sono le opere che dovrebbero venirci incontro adeguandosi ai nostri bisogni ma dovremmo essere noi ad andare incontro alle opere, e questo costa fatica.
Young Signorino e il brutto
Ascoltando brani di Young Signorino come “Esteticamente”, “Burrocacao rosa” o “mmh ha ha” non si può non citare ciò che Adorno diceva sul ciclico ritorno nell’arte del brutto e del temibile repressi dall’arte stessa: “Il concetto di brutto è sorto probabilmente ovunque l’arte si sia sollevata dalla propria fase arcaica: esso ne segna il permanente ritorno, intrecciato con la dialettica dell’illuminismo a cui l’arte prende parte. La bruttezza arcaica, le maschere cultuali che minacciano di cannibalismo, avevano a che fare con il contenuto, erano imitazioni del terrore che spargevano attorno a sé come castigo. Con il depotenziamento del terrore mitico a opera del soggetto che si stava destando, quei tratti sono stati investiti da tabù di cui erano organo; brutti solo rispetto all’idea di conciliazione che viene al mondo con il soggetto e con la sua libertà in corso di risveglio. Ma gli antichi spauracchi sopravvivono nella storia che non riscatta la libertà, e in cui il soggetto come agente dell’illibertà protrae la signoria mitica contro la quale si ribella e sotto la quale sta.” Il bello nasce dal brutto e dal temibile, l’arte nasce per contenere l’incontrollato e il temuto, ma come insegna la psicoanalisi tutto ciò che è represso è sempre pronto a venire fuori: “Dal ricorrente nasce quell’antiteticamente altro senza il quale l’arte, per il suo proprio concetto, non ci sarebbe affatto; recepito per negazione, corrode come correttivo l’affermativo dell’arte spiritualizzante, antitesi al bello del quale esso era l’antitesi.” In virtù del represso dell’arte, sempre pronto a venire fuori, l’opera d’arte è un qualcosa di soggetto alla fallibilità. Tutte le grandi opere d’arte sono tali per null’altro che la presenza in esse di tratti che fanno presentire la loro dissoluzione, il loro fallimento, un’opera d’arte è veramente grande quando lascia intravedere delle dissonanze, una falla nel sistema: “Le opere che si azzardano a esporsi, che all’apparenza si precipitano verso la propria fine, hanno di solito migliori possibilità di sopravvivere rispetto a quelle che, nel nome dell’idolo della sicurezza, risparmiano il proprio nucleo temporale e, vuote nell’intimo, come per vendetta diventano preda del tempo: maledizione del classicismo.” Ogni grande opera d’arte è dissonante, presenta tratti dissonanti che sconvolgono: si veda la considerazione che il buonsenso delle rispettive epoche aveva per Mozart, per Schoenberg, per Picasso, Luigi Tenco o più recentemente per Achille Lauro. Si vedano le reazioni di quelli che per la prima volta hanno visto la Traviata di Verdi o Finale di partita di Beckett. Tutto ciò che una volta era apparso brutto e dissonante finisce per cadere sotto la canonizzazione di “bello”, di ufficialmente bello. In questo modo c’è una istituzionalizzazione del bello senza capire che ciò che oggi è classificato come bello, come patrimonio culturale, come “ciò che ha fatto la storia”,quando ha fatto la sua comparsa non era tale. Il più delle volte era considerato brutto o aveva un’altra funzione rispetto a quella di merce-feticcio odierna. Arriviamo dunque al fenomeno Young Signorino. Dire che i pezzi del giovane trapper siano dissonanti è dire poco. Ascoltarlo è tutto tranne che godibile, finalmente oggi, nell’epoca in cui tutto è lecito, in cui ci vuole poco che ogni creazione alternativa ricada nel canone, è stato fatto un qualcosa di cui assolutamente non si possa esprimere l’inflazionato e consumistico giudizio: “bello”. Testi che dicono roba come:
“Mando baci, smack/Faccio fatto con lei col filtro make-up/ Ma è semplicemente il mio stile/ Sex stile io/No, non fate i birichini/ fate i finti signorini. Sono io il creatore/ Questo mondo per te è nuovo/ mangiavo pasta e sì/nono mica pasta all’uovo/ Sono l’unico vero rosa dentro tinta unita./Hm, sono il divo/Ha sono diva
non allietano affatto, non muovono nessuno stato d’animo se non smarrimento e disgusto. Le opere di Picasso e Beckett, di Schoenberg, sembravano avere dato fine a quell’approccio piccolo-borghese all’arte della godibilità, ma irrimediabilmente anch’esse sono cadute sotto il canone di “bello” e patrimonio dell’umanità. Il loro dovervi approcciare attraverso il concetto, pensando, facendo fatica, in quanto soggette all’estrema spiritualizzazione si è andato a fare benedire. Young Signorino, non dicendo nulla nelle sue canzoni, dice tutto, proprio come i suoi antesignani Beckett e Marinetti. Queste innumerevoli serie di immagini che si impongono balenanti avanti agli occhi e questi suoni semisgradevoli all’udito, presentano ciò che siamo oggi, senza dirlo ma facendolo vedere. Il mondo delle continue costruzioni dell’io, del suo continuo vendersi e atteggiarsi in miriadi di sfaccettature, il mondo di Instagram, del libero mercato globale, dei consumatori sfrenati è quello che questo ragazzo dal viso tatuato ci mette innanzi agli occhi:
“Ci sono demoni belli che si preparano/loro mi danno consigli musicalmente./ Ma poi vogliono consigli esteticamente/Io glieli sto dando perché li so e glieli dico/ Se vuoi fare bella figura c’è Signorino/ Fiori dal fioraio con i demoni da kiko/Vogliono un rossetto per baciare loro figlio/Si signorino glielo compro io.”
I pezzi sconnessi che sembrano assemblati con lo sputo dei brani di Signorino sono i residui di una polverizzazione antropologica che già da molto tempo è avvenuta e che oggi è iper-accentuata. Non è più possibile fare un’arte godibile, piacevole, le canzoni non possono più essere uno svago con cui intrattenersi alla fine delle fatiche della prassi giornaliera, dello shopping e dello smanettamento sui social. Esse devono presentare il tempo che viviamo, coglierlo con il pensiero, con un pensiero estetico. E’ la lezione che tra l’altro ci hanno dato i cantautori degli anni sessanta e settanta opponendosi ai canoni della godibilità del bel-canto delle canzonette. L’estetica del brutto, come già Schoenberg, Marinetti e i Dadaisti ci avevano insegnato è l’unica ancora possibile, tutto il resto non è credibile.