“Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta.”
Un’insolita commedia italiana
Perfetti Sconosciuti è un film del 2016 diretto da Paolo Genovese, apprezzato positivamente dalla critica. Un film tragicomico all’italiana che racconta di una ‘semplice’ cena tra amici. Va oltre la tipica produzione italiana di sette amici cresciuti insieme, che a 40 anni si ritrovano a cenare allo stesso tavolo come una volta. La trama vuole punzecchiare il pubblico mettendo in luce l’ipocrisia dell’uomo e le maschere che si indossano pur di proteggere se stessi. Genovese utilizza temi banali e già sentiti – come il tradimento di coppia – scavando a fondo, però, attraverso un’analisi intelligente. Mirando e colpendo, cioè, le paure recondite di tutti, lasciando uscire gli scheletri dall’armadio, facendo vedere ciò che tutti vorrebbero vedere.
I sette amici – tre coppie e un uomo forse fidanzato – sono a cena a casa di due di loro. Trovandosi a parlare di una coppia di amici in comune, divorziati a causa di messaggi compromettenti, Eva – proprietaria di casa – propone un gioco: mettere sul tavolo tutti i cellulari e leggere ad alta voce ogni messaggio, ascoltare in vivavoce ogni telefonata che sarebbero arrivati durante la serata. Proprio perché si tratta di un gioco pericoloso e alquanto masochista, le maschere cadono e si scoprono i volti – tristi e sconosciuti – di persone che si è sempre avuti al proprio fianco. Marito e moglie, fidanzati, amici che si conoscono per la prima volta.
L’amaro dopo cena
I padroni di casa sono Eva e Rocco. Eva è colei che dà il via alle danze, sicura che i suoi segreti rimarranno nell’ombra. A causa di una telefonata della madre però, viene ‘smascherata’ e finisce nel diventare anche lei vittima del suo stesso gioco. Rocco è uno dei due personaggi puri. Non a caso la figlia, Sara, sceglie come punto di riferimento il genitore che si sforza a non indossare maschere: il padre.
L’altro personaggio è Bianca, una veterinaria fresca di matrimonio. Descritta nel film come ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’, la sua è la personalità più ingenua del gruppo. Ne esce quasi sfigurata dopo essersi trovata faccia a faccia con le menzogne del marito Cosimo.
Carlotta e Lele, invece, sono sposati da anni, vivono con i loro due figli e la madre di lui – dettaglio importante. Carlotta ha tanti fantasmi che la perseguitano, tanti quanti ne ha Lele. Lui, però, crea un danno maggiore alla sua relazione: invece di uscire allo scoperto, chiede a Peppe di scambiare i loro cellulari perché sarebbe dovuta arrivare una fotografia compromettente. In questo modo mette ancora di più a repentaglio la sua situazione, essendo all’oscuro dei segreti dell’amico.
A capotavola, a finire il cerchio, è seduto Peppe, un insegnante di educazione fisica che, dopo il divorzio, non riesce a trovare una compagna stabile. Sarebbe dovuto venire con la sua nuova fiamma, Lucilla, che proprio quel giorno si è ammalata. Peppe è l’unico personaggio che indossa una maschera non lesiva verso gli altri, ma puramente protettiva per se stesso. Questo si scopre solo alla fine del film, quando vengono spezzati anche i suoi di segreti. E proprio la reazione dei suoi ‘amici più cari’ non può che confermargli che a volte il ‘politicamente corretto’ è la scelta più giusta da intraprendere.
“Dategli una maschera e vi dirà la verità”
Come si comprende dal film, tutti indossano delle maschere. Chi più spesse, chi più sottili. Ma si fa per motivi precisi: uno di questi è la difesa. Guardiamola come vogliamo, ma una maschera non si porta solo per nascondere segreti estremizzati alla ‘Perfetti Sconosciuti’, ma a volte è proprio una parte strutturante della personalità. Sicuramente è quella più esterna e artificiosa, ma definisce anche il modo di pensare, agire, ‘essere’.
La domanda che bisogna porsi è però questa: indossare una maschera è un fattore individuale o sociale? Scegliamo noi di indossare una maschera o siamo costretti a farlo? La risposta non può essere unica. In base all’esperienza, la maschera è la risposta che un individuo può dare per sopravvivere ad una ferita. È un meccanismo di difesa attuato per imporre una sorta di controllo su una situazione dolorosa. Colui che subisce un abbandono – ad esempio – indosserà la cosiddetta ‘maschera del fuggitivo’, per illudersi che non sia stato l’altro ad abbandonarlo, ma che sia stato lui stesso ad andare via. Quasi sempre la ferita principale – quella più profonda – è quella meno visibile e si nasconde sotto altre più evidenti e superficiali. In altri casi, invece, è la società a spingere l’uomo a farlo. È la società spesso che discrimina atteggiamenti e comportamenti che, volente o nolente, bisogna nascondere.
Come sosteneva anche Pirandello, ogni uomo è “Uno, Nessuno e Centomila”: esiste solo una personalità, ma non ne possediamo nessuna e ognuno può fingere tante personalità quante sono le persone che ci giudicano. Nella realtà quotidiana gli individui non si mostrano mai per quello che sono, vengono invece coperti da un velo di Maya che li rende personaggi e non persone. Un tema, questo, analizzato anche nel concreto da Hannah Arendt nel suo saggio ‘La banalità del male’, in cui criticava quella massa compatta di uomini perfettamente ‘normali’, i cui gesti erano però mostruosi. Questa ‘normalità’ è una maschera e fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società – in questo caso i programmi della Germania nazista – trovino terreno fertile nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente.
La verità è che tutti indossiamo maschere per preservare il vero ‘io’, per proteggersi dagli altri, per abitudine, ma “nessun uomo può, per un tempo considerevole, portare una faccia per sé e un’altra per la moltitudine, senza infine confonderle e non sapere più quale delle due sia la vera.”