“Quando raccontate ad un adulto di un nuovo amico, non vi chiedono mai le cose importanti. Non vi dicono: «Com’è il suono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?». Le loro domande sono: «Quanti anni ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?».”
Quante volte ci siamo sentiti dire che dovremmo imparare a guardare il mondo con gli occhi di un bambino? Che dovremmo essere più spensierati e meno seriosi? Spesso questo consiglio, che magari ci viene da quell’amico sempre sorridente e ottimista, non è poi così sbagliato. Crescere e ‘diventare grandi’ può significare perdere quell’ingenuità e quel modo di vedere la vita tipici di quando si è fanciulli.
È proprio nell’insegnamento che la volpe lascia all’aviatore Richard Bach, nel classico ‘Il piccolo principe’, il segreto di questa leggerezza:
“Si vede solo con il cuore: l’essenziale è invisibile agli occhi”.
È sicuramente giusto e doveroso crescere e acquisire la consapevolezza dell’adulto, ma in questo percorso ci dimentichiamo che “chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere” – di questo era convinto Albert Einstein, che si è conquistato un posto speciale nell’immaginario collettivo anche per il suo carattere giocoso e fanciullesco.
Oltre gli stereotipi: gli studi di Piaget
La psicologia di un bambino è, però, nella sua semplicità disarmante anche incredibilmente complessa. Rispondere alla domanda “come pensa un bambino?” potrebbe non essere così semplice come si può pensare.
Sono stati condotti innumerevoli studi sullo sviluppo del pensiero cognitivo e le conclusioni a cui si è giunti negli anni sono sorprendenti. Il massimo studioso di questa materia fu Jean Piaget, psicologo, biologo, pedagogista e filosofo svizzero che ha studiato direttamente le convinzioni dei bambini, rinunciando quasi completamente all’utilizzo dei ricordi degli adulti.
La novità è che la sua ricerca è stata condotta attraverso un metodo chiamato ‘clinico’, ovvero registrando il comportamento verbale spontaneo del bambino. In tal modo sono state messe in luce le caratteristiche fondamentali del pensiero infantile: realismo ed egocentrismo.
Per realismo s’intende la tendenza a dare maggior peso agli aspetti concreti e visibili della realtà. Ad esempio, un qualsiasi proverbio per un bambino ha soltanto un significato letterale che si riferisce agli aspetti intuibili della realtà.
L’egocentrismo è invece il comportamento tipico di chi non si rende facilmente conto che non esiste un solo punto di vista e che la propria esperienza della realtà è solo una delle tante possibili.
Infine, la caratteristica alla base della differenza qualitativa tra bambino e adulto è l’irreversibilità del pensiero infantile: il bambino non è in grado di compiere alcune operazioni mentali di ordine spaziale e logico, che invece si manifestano tra i 6 e gli 8 anni.
Con la sua ricerca Piaget ha potuto dimostrare che uno sviluppo intellettuale completo ha luogo intorno ai 16 anni, classificando la crescita del pensiero in tre stadi: 3-5 anni, 6-8 anni, 9-10 anni.
Ho in me tutti i sogni del mondo
Al contrario di quanto si può pensare il fanciullo è estremamente realista, non nel senso comune del termine ma perché ignora l’esistenza dell’interiorità del pensiero. Infatti, solo verso gli 11 anni quest’ultimo comincia ad essere considerato immateriale. Ci si aspetta quindi che un bambino provi difficoltà a spiegare il fenomeno più soggettivo che esista: il sogno.
Tre sono le domande che Piaget ha posto ai suoi piccoli pazienti:
“Dove ha origine il sogno?”
“Dove si trova il sogno?”
“Con cosa si sogna?”.
Un bambino del primo stadio crede che sia la notte a portare il sogno, solo in alcuni casi che sia la persona sognata a generarlo. Il sogno viene posto nella propria stanza, pertanto si sogna con gli occhi. La prima volta che il fanciullo sogna confonderà quest’esperienza con la realtà.
ZEUG (6 anni):
“Da dove vengono i sogni? – Dalla notte. – Che cosa vuol dire? – La notte li fa. – Dov’è il sogno? – Nella camera, si forma.”
Un bambino del secondo stadio, invece, scopre che il sogno viene da noi stessi, dal pensiero o dalla testa, ma, non capendo come un’immagine possa essere esterna, la colloca allo stesso modo nella propria stanza. Anche al secondo stadio quindi si sogna con gli occhi.
FAB (8 anni):
“Che cos’è un sogno? – È un pensiero. – Da dove viene? – Quando si vede qualcosa e poi si pensa. – Viene da noi? – Si, perché siamo noi che vediamo il sogno. – È nella tua testa o fuori? – Nella testa.”
Quando il bambino scopre che il pensiero è in realtà interno, cioè tra i 9 e gli 11 anni, inizia a considerarlo una voce situata nella testa: la stessa cosa succede per i sogni. Questi diventano originati dal pensiero e situati nella testa o dietro l’occhio. Si cominciano inoltre a manifestare delle espressioni come ‘sembra’, ‘è come se’, per indicare l’esteriorità del sogno.
VISC (11 anni):
“Come si sogna? – Con la testa. – Dove si trova il sogno? – Nella nostra testa. – Non è davanti? – È come se si vedesse. – C’è qualcosa davanti a te? – Nulla. – Che cosa c’è nella tua testa? – Pensieri.”
Lo studio di Piaget ha dimostrato che il pensiero dei bambini nasconde un’inaspettata profondità e che le loro risposte ad argomenti complessi sono, pur nella loro immediatezza, ricche di significato. Ma è proprio qui che si cela il segreto della spensieratezza e dell’innocenza di un bambino.
“Sarebbe bello parlare con i bambini che eravamo e chieder loro cosa ne pensano degli adulti che siamo diventati.”