Un’esperienza da paura
Siete seduti davanti allo schermo della tv. I vostri amici sono attorno a voi. Il divano è comodo, la sala calda e sicura. Finalmente si spengono le luci. Il film inizia, si tratta di un horror. E mentre la storia si dipana prendendo pieghe sempre più oscure per i personaggi, vi accorgete che provate emozioni intense: paura, terrore, ansia, disgusto, sorpresa si susseguono in maniera vorticosa. Sentite l’adrenalina, i nervi tesi, le mani fredde, l’impulso a non guardare. Ma allo stesso tempo, più sono forti queste emozioni, più trovate il film bello, divertente e coinvolgente.
Questa esperienza, così semplice e comune, porta con sé una tradizione di dibattiti filosofici e psicologici estremamente vasta. Fiumi di inchiostro sono stati versati per rispondere a come mai il mostruoso ci attira più del bello e perchè emozioni così negative alla fine risultano piacevoli. Ma esiste una questione di fondo che mette a dura prova tanto la psicologia cognitiva, quanto l’estetica, quanto la filosofia analitica: i film horror, come tutte le opere di finzione (fiction), ci emozionano davvero. Come può questo fenomeno così semplice essere così problematico?

Il paradosso della fiction
Dividiamo il processo di “emozione da fiction” in tre parti:
- Per poter provare un’emozione nei confronti di qualcosa, dobbiamo credere nella sua esistenza. Non è necessario essere certi della sua esistenza: possiamo semplicemente credere che ci sia un ladro in casa anche se non è vero, e tuttavia essere spaventati; ma se non lo credessi, non proverei paura.
- Personaggi e vicende di un’opera di finzione ci provocano emozioni reali. Di fronte ad un film horror abbiamo stati cognitivi che giustificano le reazioni fisiche provate, come aumento del battito cardiaco, muscoli tesi ed espressioni facciali incontrollate.
- In un’opera di finzione sappiamo che personaggi e situazioni non sono reali. In ogni momento durante la visione del film sappiamo che gli attori non sono in pericolo davvero, che il sangue è finto, che il mostro è frutto di CGI, e che una situazione del genere nel mondo reale non è mai accaduta né può accadere.
Dal punto di vista logico, prese singolarmente, queste tre premesse risultano verosimili; prese insieme, invece, rivelano una situazione paradossale. Insomma: di fronte ad un film horror avremmo paura di qualcosa che sappiamo non esistere, cioè avremmo “paura di niente”. Ma è proprio così? Come risolvere questo paradosso?
Le teorie della fiction
Le soluzioni proposte sono molteplici e per lo più consistono nella negazione motivata di una delle tre premesse. Vediamo le tre principali teorie della fiction.
La teoria dell’illusione
La teoria dell’illusione nega la premessa 3: in un’opera di finzione noi crederemmo davvero che personaggi e situazioni siano, in un qualche modo, reali. Per un teorico dell’illusione, durante la visione di un film horror saremmo ingannati in un certo senso a credere davvero che gli eventi della storia siano effettivamente reali. Si tratta di una posizione che porta all’estremo la cosidetta sospensione dell’incredulità, principio semiotico per cui lo spettatore sacrifica il realismo e la logica, cioè le conoscenze consolidate sul funzionamento del mondo, per godere appieno dell’opera di finzione. Ecco perchè accettiamo nella narrazione esseri mostruosi, forze sovrannaturali, poteri telepatici e via dicendo. La sospensione del giudizio critico è necessaria per ritenere coerente un film in cui vediamo fantasmi, mostri o alieni: durante la visione saremmo portati a credere nella loro effettiva esistenza. In realtà, si tratta di una posizione facilmente criticabile: se ad un certo punto davvero credessimo che gli alieni hanno invaso la terra, probabilmente scapperemmo dalla sala senza esitazione. Cosa che non accade. È sufficiente osservare le reazioni comuni ad un film per convincersi che esso non riesce ad “illuderci” nel modo in cui vorrebbe questa teoria.

La teoria del pensato
La teoria del pensato nega la premessa 1: non sarebbe necessario credere nell’esistenza reale di qualcosa affinché essa ci provochi un’emozione. Possiamo avere una risposta emotiva a qualcosa semplicemente “rappresentata mentalmente”, senza credere che esista: insomma, il solo pensiero di qualcosa è sufficiente a suscitare un’emozione. Possiamo fare esperienza di questo fenomeno pensando di prendere la matita che c’è sul tavolo, portarla di fronte a noi e di infilzarci il nostro occhio: il solo pensiero ci fa rabbrividire di disgusto e di paura. A questo punto, è facile capire come un film horror, con le sue immagini vivide e dettagliate, riuscirebbe a suscitare pensieri così intensi da provocare risposte emotive anche molto complesse. Tuttavia, bisognerebbe fare una distinzione: a farci paura è “il pensiero del mostro” o “il mostro”? I teorici del pensato sostengono che il pensiero è ciò che causa la paura, mentre il mostro è l’oggetto verso cui sarebbe diretta la nostra paura. Il pensiero sarebbe lo “schermo mentale” su cui appare la rappresentazione del mostro. Ma questa risposta porterebbe un problema: aver paura di un’illustrazione invece del mostro reale sarebbe irragionevole. Insomma, si finirebbe col dire la paura del mostro è ingiustificata: eppure, non riusciamo a fare a meno di emozionarci di fronte ai film.
La teoria della simulazione
La teoria della simulazione nega la premessa 2: di fronte ad un’opera di fiction noi in realtà non proveremmo emozioni reali. Secondo i teorici della simulazione, quelle che percepiamo come emozioni durante un film in realtà sono quasi-emozioni (Walton), cioè situazioni emotive molto meno intense rispetto alle emozioni vere e proprie che potremmo provare nella vita reale. La paura vera e la quasi-paura, certo, sono molto simili: le reazioni fisiologiche esperite, come l’aumento del battito cardiaco o il sudore freddo, sono le stesse. Tuttavia ci sono importanti differenze. Innanzitutto, la quasi-paura non dipende dall’esistenza reale dell’oggetto o della situazione che ci incute timore, mentre la paura vera invece richiede la credenza dell’esistenza effettiva di una minaccia. La quasi-paura è generata da credenze di second’ordine, riguardo a cose che facciamo finta essere vere. Dal punto di vista comportamentale, anche le reazioni sono diametralmente diverse: se durante il film noi provassimo vera paura, reagiremmo per esempio scappando o chiamando la polizia; e invece questo non accade.
Una palestra morale
Oltre a queste, in molti hanno proposto varie altre teorie della fiction. È un dibattito tutt’oggi molto vivo, che coinvolge studiosi di filosofia analitica, di estetica, di psicologia, di narrativa. In fondo, è una questione che sta al fondamento di ogni opera di fiction: una storia veicola valori morali, interpretazioni del mondo, riflessioni etiche tramite le emozioni che riesce a suscitare. Come possono le emozioni stesse essere portatrici di un messaggio? Come abbiamo visto, secondo le teorie viste è possibile “fingere” una credenza o un’emozione. Al contrario, i giudizi pratico-morali non possono essere finti: posso “fingere” di credere ad un fantasma, ma non posso “fingere” che abbandonare i miei amici al loro destino per mettere in salvo me stesso sia giusto. Ecco dove sta la peculiarità dei film horror: tramite le emozioni che suscitano, ci coinvolgono più di molti altri generi di film, e, mettendo a dura prova la nostra coerenza etico-morale, ci obbligano a metterci in discussione.

Meglio scappare e mettersi in salvo con i propri amici, oppure tornare indietro per salvare la propria ragazza? Meglio tagliarsi il piede come vuole l’Enigmista e riacquistare la libertà subito, oppure aspettare un intervento della polizia? Come scoprire la Cosa mutante prima che uccida altri tuoi compagni, sapendo che si è trasformata in uno di loro in maniera indistinguibile? I film horror risultano essere una vera e propria palestra morale, in cui imparare ad affrontare con l’immaginazione le situazioni più estreme per essere più forti nella vita di tutti i giorni.
Federico Mandelli