Attentato terroristico a Melbourne tra nichilismo e ideologia

 

L’attacco di Melbourne

Venerdì 9 novembre 2018 è una giornata di sole tranquilla a Melbourne, sulla costa sud dell’Australia. Ma nel pomeriggio accade l’inatteso: in Bourke St., a pochi metri dalla cattedrale e dalla Townhall, un pickup si schianta nella vetrina di un ristorante. L’autista, un uomo di origini somale di 30 anni, scende e appicca il fuoco al mezzo. Subito dopo, si scaglia contro i passanti con un pugnale. Il suo grido è ormai tristemente già noto: “Allahu akbar”. Due persone vengono ferite, un’altra viene uccisa. Gli agenti della polizia intervengono e vengono aggrediti. Dopo qualche minuto di confronto, un senzatetto scaglia contro il terrorista un carrello del supermercato, distraendolo e facendogli perdere l’equilibrio. A quel punto, l’accoltellatore viene colpito da un proiettile. Morirà più tardi all’ospedale.

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L’ISIS rivendica l’attacco tramite l’agenzia Amaq: a quel punto non ci sono più dubbi sulla matrice e le ragioni dell’attacco. Più tardi si scoprirà che l’uomo, già noto all’antiterrorismo nazionale e internazionale, aveva in mente un piano più sanguinario: il pickup incendiato era pieno di bombole di gas e sarebbe dovuto esplodere. Fortunatamente, qualcosa è andato storto.

Due strade per riflettere

L’attacco di Melbourne indica una triste verità: l’ISIS, anche se sconfitto sul territorio, è ancora vivo, pericoloso e capace di colpire. Se infatti è possibile contenere militarmente una realtà fisica, è impossibile intervenire su una realtà ideologica che vive soprattutto nella mente degli adepti – a meno di sacrificare i diritti di libertà di pensiero e religione, nonchè la presunzione di innocenza in mancanza di prove, fondamentali in una società che voglia considerarsi moderna e democratica. E questa nostra impotenza di mezzi ci spaventa. Come mai un uomo può scegliere di uccidere persone innocenti in nome di una ideologia? E ancora di più, come può un’ideologia divenire più importante della propria vita, che da noi è spesso considerata come il bene più prezioso? E ancora di più, come può una religione, che dovrebbe insegnare a distinguere il bene dal male, venire interpretata in modo così perverso da far considerare l’omicidio dell’innocente un gesto meritevole di paradiso?

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Per comprendere questo fenomeno, non si può non fare riferimento al principale paradigma di oggi: il nichilismo contemporaneo, che porta all’atomizzazione della società in individui sempre più isolati gli uni dagli altri e alla perdita di ideali comuni. Sono due le categorie in cui si dividono le riflessioni sul tema, in base alla risposta che si voglia dare a questa domanda: il terrorismo, e il terrorismo di matrice islamica, è fondamentalmente nichilista? La società di oggi è il campo ideale in cui può prosperare il terrorismo?

Terrorismo figlio del nichilismo

Il filosofo Andrè Glucksmann ricordava che “Ci sono due forme di nichilismo, diceva Nietzsche. Da una parte, c’è quello attivo del terrorismo che tende a distruggere, quello che gode della distruzione, quello che grida “Viva la morte!”. Dall’altra, c’è il nichilismo passivo, quello che lascia gridare i terroristi, quello che lascia gridare “Viva la morte!”, che lascia distruggere le popolazioni. Questo nichilismo passivo è molto diffuso in Europa.

Se il terrorismo islamico è per lo più motivato da una religione, in realtà si tratterebbe di un gesto di profondo odio, che arriva a negare la vita: e non si può negare la vita senza negare Dio. Un gesto di disperazione violento e insensato, a cui il terrorista applica una facciata di santità per renderlo più accettabile a sé. Come sostiene anche Sergio Givone, “I terroristi non uccidono in nome del Dio in cui dicono di credere, ma in nome del Dio in cui non credono più, in nome del Dio di cui disperano. C’è una radice di assoluta disperazione nel terrorismo, e perciò il terrorismo ha a che fare con il nichilismo ben più che con la religione”.

Ma da dove viene questa disperazione? Semplice: da una società a sua volta nichilista. Una società aperta, sì, ma composta da individui chiusi a sé. In cui il “Non m’importa di quello che la gente pensa di me” è diventato sovrano. Certo, si tratta di una società pluralista, ma che sempre di più cade nel comunitarismo, cioè nel “ripiegarsi di una comunità culturale su se stessa, attraverso la creazione di confini invisibili” (W. Farouq), in cui i soggetti più deboli rimangono isolati, frustrati e suggestionabili.

Terrorismo figlio dell’ideologia

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Ma è corretto sostenere che i soggetti che diventano terroristi in realtà non credano in nulla? Per Simone Regazzoni, il terrorista “è un soggetto con riferimenti valoriali molto forti e una fede in una Causa che è il movente primo delle sue azioni. Questa Causa è identificata con il Bene ed è sacralizzata. Il terrorista islamico agisce in nome non di un nulla, ma in nome di quella Causa… è in nome del “Bene” che si compiono i peggiori delitti storici.” Come possiamo notare anche nell’attentato a Melbourne, il terrorista cerca la morte per dare un senso alla sua vita: poteva arrendersi, e invece ha preferito immolarsi per diventare “martire”. Tutto questo non sarebbe possibile senza una credenza molto radicata in un aldilà: ben lontano dal “Dio è morto” di Zarathustra. E non solo: la ricerca del senso della propria esistenza è un atteggiamento tipico dei filosofi non nichilisti, dagli antichi ai medievali fino ai giorni nostri.

Interpretare il terrorismo come slegato dalle ideologie rischia di farci perdere di vista questi aspetti importanti per comprenderlo e sconfiggerlo; fare in modo che ciascuno invece abbia appagamento dalla propria vita, e riconoscere come diritto anche la ricerca della felicità, come recita la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, è il miglior antidoto contro i frutti perversi delle ideologie mortifere.

Vittime innocenti

Comunque la si pensi, il terrorismo è il risultato dei lati peggiori del nichilismo e del senso religioso. È volontà di potenza senza amore per l’esistenza terrena, è pura dottrina senza amore per il prossimo. E si scaglia con furia cieca contro l’in-nocente, cioè “chi non nuoce, chi non può fare del male”.

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A Melbourne la vittima innocente si chiamava Sisto Malaspina, veniva dall’Italia e aveva 74 anni. Era proprietario del Pellegrini’s Bar, noto e apprezzato in città, e ha dedicato la vita a portare la cultura del buon caffè nelle giornate dei propri clienti. Un uomo appassionato, gentile e amichevole, ben voluto da tutti. Fra i messaggi di cordoglio, perfino quello di Russell Crowe.

Egli non ha fatto niente!”, esclama il buon ladrone nel Vangelo di Luca, guardando a Gesù in croce. La stessa esclamazione che sgorga dal cuore pensando a Sisto, nonché a Valeria Solesin, a Bruno Gulotta e ad ogni singola vittima del terrorismo. “Non ha fatto niente”: una frase posta in uno dei momenti fondamentali della cultura e della spiritualità occidentale, ma che scaturisce dal semplice senso di umanità, spontaneamente compassionevole nei confronti dell’innocente.

Perché il terrorismo, più che allarme o paura, provoca dolore e tristezza, quando guardiamo alle sue vittime e invece che individui nichilisti troviamo persone che vivono e ballano, che si divertono e lavorano, che vanno in vacanza e che amano fino a sacrificarsi. Quando fra gli innocenti troviamo vignettisti blasfemi, guardiani musulmani e sacerdoti cattolici. Quando realizziamo che l’obiettivo del terrorista non è l’affermazione di qualcosa, ma la distruzione della vita in qualunque suo aspetto. E allora, al di là del bene e del male, restiamo umani compassionevoli: non soltanto con chi è morto, ma anche e soprattutto con chi vive.

Federico Mandelli

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