Attacchi terroristici in Sri Lanka. La riflessione sulla tolleranza e l’intolleranza in Voltaire

 

La cronaca

È pasqua! Le campane suonano a festa, i canti gioiosi, il silenzio orante dei fedeli cattolici, i segni che compie il sacerdote che rimandano alla risurrezione del Cristo, accompagnano la liturgia solenne della Pasqua, lo scorso 21 aprile, in ogni parte del mondo. Anche la minoranza cattolica, in Sri Lanka, il 7,5% della popolazione, celebra questo imperscrutabile mistero. Non è una domenica tra le altre, è la domenica di Pasqua, nella quale i cattolici, celebrano e commemorano il fulcro della fede Cristiana, la Resurrezione di Cristo dai morti. A rompere il clima gaio e solenne di quel giorno, furono dei Kamikaze, estremisti di religione musulmana, con un unico obiettivo: morire per far morire, in nome di Dio.  Non è una domenica tra le altre, perché in questa domenica si è verificato l’ennesimo atto di estremismo e intolleranza religiosi. D’un tratto la festa si trasformò in tragedia, la vita di centinaia di persone venne spezzata. D’un tratto la libertà e la spontaneità di professare la propria fede fu negata e dei semplici fedeli divennero “i martiri di Pasqua”. I primi sei attacchi si sono verificati ,verso le nove, in tre hotel di lusso di Colombo e tre chiese; la settima esplosione in un edificio di Dehiwala, in uno dei sobborghi a sud della capitale, dove un attentatore si è fatto esplodere e in cui morirono tre poliziotti che erano entrati per fare una perquisizione. L’ottava, che ha provocato la morte del solo attentatore, è avvenuta ancora in un quartiere di Colombo, Orugodawatta. Il bilancio delle vittime è di almeno 310 morti e oltre 500 feriti, tra residenti e turisti. Le chiese colpite dall’esplosione sono: Sant’Antonio a Colombo, San Sebastiano a Negombo, nella quale l’esplosione ha causato il maggior numero di vittime, circa 70, e una chiesa a Batticaloa che si trova a 250 chilometri a est della capitale.  Il primo ministro Ranil Wickremesinghe ha convocato il Consiglio di sicurezza. “Condanno fermamente gli attacchi vigliacchi contro la nostra gente”, ha scritto in un tweet dal suo account. “Invito tutti i cittadini dello Sri Lanka in questo tragico momento a rimanere uniti e forti. Il governo sta prendendo provvedimenti immediati per contenere questa situazione”. Il presidente Maithripala Sirisena ha parlato alla nazione e invitato alla calma. Anche l’arcivescovo di Colombo, mons. Malcolm Ranjit, intervenne, sospendendo tutte le celebrazioni pasquali e invitando i suoi concittadini a non farsi giustizia da soli, al fine di riacquistare la pace e l’armonia tanto agognate, che erano state raggiunte nel 2009, a seguito di una guerra civile durata ben 25 anni, che aveva visto il governo opporsi ai separatisti delle tigri Tamil causando quasi 100.000 morti, e che improvvisamente sono state violate.

Di recente le tensioni avevano riguardato tutti i gruppi religiosi: i cristiani avevano accusato le crescenti intimidazioni da parte di monaci buddisti estremisti; l’anno scorso si erano verificati scontri tra la maggioranza dei buddisti cingalesi e la minoranza di musulmani, con alcuni estremisti buddisti che accusavano i musulmani di conversioni forzate all’Islam. Nel Paese, infatti, vivono cattolici, divisi tra maggioranza cingalese e minoranza Tamil, in tutto il 7,5 % della popolazione, buddisti (oltre il 70 %), hindu (12 %) e musulmani (10%). Molte sono le testimonianze di uomini e donne che hanno vissuto questa atrocità. Alcune narrano che tra il dolore, la preoccupazione e l’indignazione, i fedeli cattolici continuavano a pregare invocando la pace, alcuni, urlando, chiedevano a Dio il perché di tutto questo, altri in silenzio orante. Ciò è segno che la tragedia non è stata in grado di spegnere la fiamma della fede che arde nell’intimo di quelle persone. Anche i fedeli delle comunità cingalesi presenti in altre parti del mondo si sono riuniti in preghiera, in segno di vicinanza e comunione.  Questa tragedia ha causato imminenti reazioni internazionali. Capi di stato di tutto il mondo hanno espresso vicinanza e indignazione. Lo stesso papa Francesco, al termine della benedizione “urbi et orbi” il giorno di Pasqua, ha espresso il suo accorato appello e la sua “affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza.”

Sull’intolleranza oggi
Sembrava esser tramontato il tempo delle persecuzioni e dell’intolleranza religiose, ma non è affatto così. I fantasmi del passato riaffiorano nel presente. È come se i tempi passati non fossero mai stati perché sono. È una realtà tanto lontana quanto vicina alla nostra, che spesso cade nell’indifferenza più totale. Ancora oggi ci sono paesi e cittadini fanatici, nel mondo, che non permettono la libera professione di fede e che pretendono di imporre il proprio credo. Centinaia di cristiani, musulmani, e altri fedeli appartenenti alle più disparate confessioni religiose, perdono la propria vita ogni giorno solo perché professano la loro fede. Si erge unanime l’invocazione alla pace, alla tolleranza, al rispetto dell’altro e delle sue concezioni, in un mondo dilaniato da conflitti etnici e tensioni interculturali.

Il “trattato sulla Tolleranza” di Voltaire

Nella filosofia il concetto controverso di tolleranza è stato molto dibattuto. La parola tolleranza deriva dal latino “tolerare” che significa sopportare; sembra essa stessa apparire artificiale, effimera, destinata a perire prima o poi, perché prevede un’autorità che obblighi e si obblighi a “sopportare” l’altro piuttosto che accoglierlo disinteressatamente. La questione centrale, nella fattispecie, non è tanto la tolleranza “verticale”, politica, che rimane comunque necessaria, ma è la tolleranza e il rispetto “orizzontale”, tra i cittadini, che si manifesta anche nelle azioni più ordinarie. Tra i trattati più discussi ,e che diedero un grande e innovativo contributo nella filosofia e non solo, vi è certamente il “trattato sulla Tolleranza” di Voltaire, pubblicato nel 1763. Questo testo si presenta come strumento di lotta contro la superstizione e l’oscurantismo ideologico-religioso, in nome della ragione e della tolleranza. Ma qui, vorrei prendere in considerazione il concetto di tolleranza e di intolleranza, in Voltaire, nei suoi assiomi generali.  Sin dall’inizio del saggio Voltaire, spinto dall’ottimismo razionale proprio degli illuministi, presenta la sua visione positiva della natura umana facendo appello alla capacità di ragionare di ogni essere umano. Scrive Voltaire:

“Ci saranno sempre dei barbari e dei bricconi che fomenteranno l’intolleranza […]. Noi siamo stati contagiati a tal punto da tale furia che, nel corso dei nostri lunghi viaggi, l’abbiamo portata in Cina, nel Tonchino, in Giappone. Abbiamo impestato quei bei climi. I più indulgenti fra gli uomini hanno imparato da noi a essere i più inflessibili. Noi abbiamo detto loro innanzitutto, come premio per la loro buona accoglienza: Sappiate che noi siamo, sulla terra, gli unici ad aver ragione e che dappertutto dobbiamo essere i padroni. Allora siamo stati scacciati per sempre; sono scorsi fiumi di sangue; questa lezione avrebbe dovuto correggerci.”

Da queste parole trapela la veemente critica nei confronti degli europei, divulgatori dell’intolleranza in senso lato. “Noi”, gli europei, i “civili”, abbiamo trapiantato il seme dell’intolleranza nelle altre culture ritenute “incivili”. Voltaire non rivendica nessuna presunta superiorità civile dei paesi europei rispetto ai paesi extraeuropei. La tolleranza si pone per Voltaire – non altrimenti che per i suoi due grandi predecessori in materia, Locke e Bayle – in primo luogo come problema religioso: poiché religiose sono le radici ultime dell’intolleranza. Ma a differenza di Locke, che escludeva dalla tolleranza gli atei e i “papisti”, Voltaire afferma che la possibile soluzione al problema della tolleranza consiste nella promozione e nel mantenimento di un ampio assetto “pluralistico” delle credenze, purché quest’ultime non ledano la libertà altrui e l’ordine sociale: “Quante più sono le sètte, tanto meno ciascuna setta è pericolosa. La molteplicità le indebolisce”. È necessario che siano indebolite perché nessuna di esse rivendichi un fantomatico primato sulle altre, poiché “siamo tutti impastati di debolezze e di errori. Perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze: è la prima legge di natura”.  La tolleranza, dunque, è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all’errore. Non resta che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani. “Il diritto dell’intolleranza-scrive Voltaire– è assurdo e barbaro: è il diritto delle tigri; anzi è ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi.”

Riflessione

Oggi più che mai risuonano attuali le parole di Voltaire che ritiene un’assurdità il fatto stesso che dei “paragrafi”, dei testi religiosi, siano alla base dell’incomprensione, della violenza e della persecuzione. Fungano da monito queste ultime parole di Voltaire, affinché le differenze religiose, culturali, sociali e di pensiero, non vengano neutralizzate, ma siano valorizzate, al fine di riscoprirci come parte di un immenso prato composto da migliaia di fiori diversi per colore, riconoscendo che è proprio la diversità a creare l’armonia ammaliante dell’umanità. Che non si pretenda di cambiare l’altro imponendo le nostre convinzioni, ma che sia accettato e accolto così come è, nella sua inestimabile estraneità.

 

 

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