“Ah, che bell’ ‘o cafè”: analizziamo la vita dietro le sbarre insieme a De Andrè

Il carcere, un mondo parallelo al nostro di cui non possediamo le chiavi

De Andrè in concerto al Teatro Brancaccio di Roma un anno prima della sua scomparsa

Per il bene della sociologia, andremo dietro le sbarre per analizzare il mondo delle carceri utilizzando il brano Don Raffaè” di De Andrè che, per quanto accurato, ricevette il plauso dal personaggio a cui il brano fa riferimento: Raffaele Cutolo.

“GRADITE ‘O CAMPARI O VOLITE O CAFÈ?”

Tratto dall’album di inediti “Le Nuvole” il cui titolo fa riferimento alla omonima commedia di Aristofane che ridicolizza la figura di Socrate, accusato di corrompere i giovani e per questo condannato a morte. Proprio come la commedia di Aristofane, anche il brano denuncia una dinamica non rimasta inosservata sotto gli occhi di De Andrè, ovvero la sottomissione dello Stato al potere della criminalità organizzata: Anni 80, siamo nelle carceri italiane, per la precisione nel carcere di Poggioreale che, per anni, è stata non solo la dimora del boss camorrista Raffaele Cutolo, ma anche sede della Nuova Camorra Organizzata fondata da Cutolo stesso. I protagonisti sono da un lato il brigadiere dell’allora Corpo degli agenti di custodia del carcere di Poggioreale, e don Raffaele Cutugno detto “O’ professore” poichè l’unico a saper leggere e scrivere. Il brigadiere racconta le dure giornate all’interno del carcere e di come esista soltanto “un uomo geniale”, l’unico con cui scambia volentieri qualche parola di sfogo:

“Io mi chiamo Pasquale Cafiero
E son brigadiero del carcere, oiné
Io mi chiamo Cafiero Pasquale
E sto a Poggio Reale dal ’53
E al centesimo catenaccio
Alla sera mi sento uno straccio
Per fortuna che al braccio speciale
C’è un uomo geniale che parla co’ me”

All’interno delle carceri i detenuti vivono una condizione di emarginazione dalla nostra società attuale, dove sembra non esservi alcun filo che lega questi due mondi. Un filo però De Andre lo individua nel caffè, poichè saper fare il caffè nonostante il luogo significa ricordarsi davvero chi si è, cercando di acquisire un minino di dignità in quella condizione di miseria. Un discorso ontologico basato interamente su una tazzina:

“Ah, che bell’ ‘o cafè
Pure in carcere ‘o sanno fa
Co’ a ricetta ch’a Ciccirinella
Compagno di cella, c’ha dato mammà”

Illustrazione raffigurante De Andrè, fonte: skyarte.it

DIETRO LE SBARRE NON SEI ALIENATO DAL MONDO, MA IN UN ALTRO MONDO

Negli ultimi anni la sociologia è passata dallo studiare il profilo psicologico del criminale a spostare la sua attenzione per il contesto sociale di appartenenza del criminale e sugli effetti che le sue azioni hanno sulla società a livello più ampio. Una figura chiave per comprendere al meglio questo mondo parallelo al nostro è stata quella di Edwin Sutherland, criminologo statunitense, che studiò una serie di questioni con molti punti interrogativi come i reati dei colletti bianchi, la pena di morte e le prigioni, dove era necessario indagare più affondo. Il suo contributo più importante è stata la teoria basata sull’associazione differenziale, secondo cui le persone apprendono il comportamento criminale in base all’ambiente e al tipo di persone frequentate. A questa teoria va aggiunta una visione nata da studi recenti sul fatto che il detenuto, una volta rilasciato, dovrebbe essere accompagnato in un percorso di rinserimento, in quanto secondo gli ultimi dati alla mano è stato calcolato come possano cadere nella recidiva e tornare nuovamente dietro le sbarre, poiché negli ultimi anni le carceri sono diventate le prime scuole del crimine. Il sistema di giustizia penale è invece coinvolto nell’arresto, nel processo e nella punizione di coloro che violano la legge e mira a prevenire quelle violazioni prima che si verifichino. Il sistema di giustizia penale presenta anche delle responsabilità molto più generali, come garantire la sicurezza pubblica e mantenere l’ordine sociale, mentre il mondo delle carceri resta abbandonato a sè stesso. Se prendessimo in esame Stati Uniti, noteremo come possiedano il più alto tasso di incarcerazione al mondo, un numero fuori controllo di prigionieri che crea altri problemi tra cui il sovraffollamento delle prigioni, nonché l’aumento della violenza contro i compagni di prigionia. In questa confusione che genera mancanza di controllo e di supervisione, nasce la questione della classe sociale e della criminalità all’interno delle stesse prigioni, in quanto all’interno di esse esiste una vera e propria gerarchia, dove spesso detenuti quali boss mafiosi riescono ad avere un forte controllo sui detenuti stessi, possedendo la capacità di far prediligere la loro opinione su quella degli altri, finendo per vestire i panni di Cicerone nell’inferno dantesco delle carceri. Una situazione cantata da De Andrè attraverso il personaggio del brigadiere che afferma che “Mi spiega che penso e bevimm’ ‘o café”

IL CRIMINE FUORI DALLA CELLA

La criminalità transfrontaliera è aumentata con la globalizzazione. La droga e il terrorismo sono ora in cima alla lista delle preoccupazioni globali per quanto riguarda la criminalità, ma altri includono il commercio clandestino di armi, specie in pericolo, rifiuti radioattivi ecc. La criminalizzazione globale del consumo di droga è un esempio emblematico. Uno sviluppo che ostacola gli sforzi per controllare la criminalità globale è la creazione di zone di libero scambio, aree geografiche in vi è una supervisione minima. La crescita del crimine globale ha portato alla crescita della polizia a livello internazionale, basti pensare alla sorveglianza delle frontiere tra gli Stati Uniti e Messico, e lo stesso è accaduto in Europa con la nascita dell’Europol. Ma mentre i controlli oltreoceano crescono, diminuisce il controllo nelle carceri, decisamente più piccoli rispetto ad un continente. E mentre nessuno osserva, che siano camorristi o ndranghetisti, riescono ad ottenere il controllo grazie all’acquisto della fiducia degli altri detenuti, promettendo, come rappresentato nel film “Il Camorrista” di Giuseppe Tornatore, promettendo sostegno dentro e fuori dal carcere. Proposta a cui il nostro stesso brigadiere non ha saputo cedere:

“A proposito tengo ‘nu frate
Che da quindici anni sta disoccupato
Che s’ha fatto cinquanta concorsi
Novanta domande e duecento ricorsi
Voi che date conforto e lavoro
Eminenza, vi bacio, v’imploro”

L’unico a non essersi voluto piegare ai voleri del boss all’interno del carcere fu Giuseppe Salvia, vicedirettore e responsabile di massima sicurezza del carcere di Poggioreale stesso. Stufo del potere di Cutolo radicato in ogni singola cella del carcere, decise dopo un processo che vedeva come imputato il boss di Ottaviano, di perquisirlo personalmente a seguito del rifiuto degli agenti penitenziari, ricevendo uno schiaffo da parte di Cutolo. Era il 14 aprile 1981, ed il potere di Cutolo uscì fuori dalla sua cella, uccidendo Salvia in un agguato sulla tangenziale di Napoli.

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