2001: Odissea nello Spazio è uno dei film più famosi e importanti della storia del cinema. Su ammissione dello stesso regista, Stanley Kubrick, si tratta di un’opera immaginifica che dialoga con la natura inconscia, poetica e filosofica dello spettatore, in particolare modo con il pensiero di Nietzsche
L’ottavo lungometraggio del regista americano, naturalizzato inglese, debuttò in anteprima mondiale il 2 aprile del 1968. Da allora, per temi, scelte stilistiche e stupefacente visionarietà ha attirato le attenzioni di spettatori, studiosi, critici e intellettuali in genere. Nel finale psichedelico, gli occhi enormi, inumani, asettici, sfavillanti dello Star Child si volgono in camera, e, diritti a ciascuno di noi, spiegano il grande compito a cui siamo chiamati. Che cosa si aspetta il feto astrale da noi (e con lui il regista)? Dare soggettivamente volto, nome e contesto alla rete di rimandi simbolici, alla foresta semantica di correlativi che il regista ha dispensato nelle due ore precedenti. Tanto si è scritto in questo senso: tutti si sono immersi in apnea nell’opera per riemergerne con una personale interpretazione. Alcune canoniche, altre ardite, alcune imbarazzanti. Una delle più consolidate riguarda il parallelismo tra la corsa evolutiva dell’umano (dagli ominidi al figlio delle stelle) e la metamorfosi che, secondo Nietzsche deve portare la nostra specie all’Uomo Nuovo, l’Übermensch, l’Oltreuomo.
“Vi scongiuro, o fratelli, siate fedeli alla terra”
Così parlò Zarathustra è l’opera di Nietzsche, scritta a cavallo tra il 1883 e l’85 in cui si esplicita l’urgenza della rinascita dell’uomo dopo millenni di schiavitù alla morale imperante, ai valori precostituiti, alle religioni e alle illusioni di trascendenza. La “corda tesa” tra l’uomo e il suo superamento è appunto Zarathustra, profeta dell’avvento della nuova umanità, rinnovata e libera dalla morte di Dio (la consapevolezza non allarmistica dell’infondatezza di tutti i valori), consapevole della ciclicità del tempo (e quindi dell’infondatezza di ogni riflessione assiologica) e pronta all’adorato uso della volontà di potenza (la fiducia piena di rinnovare i valori squisitamente umani). A suffragio di questa interpretazione, che classifichiamo tra quelle canoniche, c’è la scelta musicale dello stesso regista che ha scelto per l’apertura e la chiusura del film. Centrale nel tessuto narrativo delle sue opere, ogni colonna sonora contribuisce alla costruzione tematica del film. Per questo, scegliere l’omonima opera 30 di R. G. Strauss è tutto fuorché casuale. Nella sua rappresentazione per immagini della crescita dell’uomo, Nietzsche usa tre immagini: il cammello, le cui gobbe incarnano la feroce obbedienza richiesta dai vecchi e castranti valori (che proliferano in Occidente dal vulnus del platonismo e della Croce fino ai giorni nostri); il leone che ruggendo si scrolla di dosso la vecchia morale e finalmente è libero da i vecchi schemi e il fanciullino, rinnovato nel fisico e pronto a tracciare nuovi orizzonti valoriali, superando il vecchio uomo, da qui l’oltre del nome. Quando l’astronauta Bowman, il solo sopravvissuto, raggiunge Giove, passa attraverso una porta stellare per riapparire ai margini della galassia e finire in mostra in uni zoo che non ha gabbie se non quelle della mente. La sua prigionia infatti ha le fattezze del passato, perché sono stati utilizzati i suoi ricordi per la reclusione. Invecchia e muore, per rinascere, homo novus, oltreuomo, bimbo delle stelle. Il suo scarto evolutivo è fortissimo, il rinnovamento angelico, potremmo dire provvidenziale, visto che si volge verso la Terra per concedere a tutti gli uomini lo stesso rush metamorfico e migliorativo.
La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo
L’unica frattura in questa interpretazione è la natura del miglioramento: fisiologica ed evoluzionistica quella di 2001 (quale sia il suo significato, il monolito è una presenza simbolica di una qualche trascendenza, quindi siamo ancora a un livello “Umano, troppo umano”, addirittura paragonato a Archetipo junghiano del regista stesso), voluta e pienamente cavalcata dall’oltreuomo (che non è stato selezionato, ma ha preso la vita in mano, accettandola -diciamo “sì alla vita”- dominandola, innervandola di nuovi valori vitali. L’annuncio di Zarathustra, modellato sull’illustre “avo”, il discorso della Montagna del Cristo, presenta un uomo davvero sfavillante (letteralmente, “Shining”) in grado di donare la virtù della terra ed elevare l’umanità tutta. Il linguaggio filmico permette a Kubrick di fare filosofia. La meticolosa poetica delle immagini infatti gli ha consentito nella sua produzione di esprimere tesi intellettuali, utilizzando il medium più congeniali, le immagini in movimento. Pur essendo molto esigenti i suoi film, la prima visione è squisitamente passiva, nel senso più nobile del termine. Il substrato concettuale e teorico (onnipresente) viene solo goduto e visto, ingoiato senza filtri. Il piacere della visione è così grande al primo impatto che è dolce lasciarsene cullare. Solo in un secondo momento si può approfondire e complicare il reperto filmico che intanto ha seminato i suoi primi spunti nel nostro inconscio.
“So che qualcosa in me non ha funzionato bene…”
A una seconda, terza visione appare chiaro come, di tutti i film della produzione del regista inglese, “2001: Odissea nello spazio” sia il più filosofico di tutti. Questo è uno di quei prodotti mirabili, che occhieggiano poche volte nel cammino culturale dell’uomo e ne segnano in maniera irredimibile la continuazione. Sono destinati a cambiare prospettiva, a diventare pietra angolare di ogni altre forma di espressione simile. Per sfruttare un felice concetto di Thomas Kuhn, 2001 cambia molti paradigmi. Non è solo un’opera significativa, è un costrutto teorico che porta il cinema, il cinema di fantascienza, la cultura delle immagini, l’arte e in generale la cultura umana a vedere il mondo in maniera diversa, del tutto inedita. Il pregio di un nuovo paradigma (Kuhn è filosofo della scienza e, come tale, ha come riferimento i sistemi interpretativi generali della ricerca) è fornirci nuove e migliori risposte a vecchi problemi in sospeso. Kubrick fa esattamente questo. Quello che interessa di più in questa sede è il nuovo uso della luce. 2001 è il primo dei suoi film in cui la marcata luminosità diventa strumento di produzione di senso, contribuendo a creare un’aura traslucida e sognante alle grandi scene mute che dominano larghe parti del film. Su 140 minuti di girato, i dialoghi occupano poco più di un terzo della pellicola, facendo di questo film un’opera visiva e non verbale. Lo afferma lo stesso regista: evitando la verbalizzazione si lavora sul tessuto percettivo, immaginifico, allucinatorio, inconscio. Kubrick mira al cuore subconscio dell’uomo “che è essenzialmente poetico e filosofico”. Tolto il piacere estetico della prima visione, il regista si aspetta molto dal singolo spettatore, come detto.