Una vita già scritta: entriamo dove la mafia è padrona insieme a Ciro Di Marzio

Un cammino fatto di morti e sangue versato sulle strade di Napoli e non.

Una realtà dove le istituzioni sono assenti, in cui i bambini sanno impugnare armi e fare i corrieri per la droga, osservato dai sociologi a distanza di sicurezza, la cui analisi del racconto firmato Roberto Saviano è stata fondamentale.

STORIA DI UN CRIMINALE

Durante il terremoto dell’Irpinia del 1980, l’allora neonato Ciro Di Marzio perde entrambi i genitori, crescendo in un orfanotrofio napoletano che lo porterà sulla strada della malavita, entrando sempre più in contatto con il quartiere di Secondigliano. Man mano che l’ambiente malavitoso comincia a diventare per lui una seconda casa, inizieranno per lui a spalancarsi le porte della famiglia Savastano. Diventerà per i Savastano un vero e proprio soldato, stringendo anche amicizia con Gennaro “Genny” Savastano, figlio di Don Pietro, ma col passare del tempo si allontanerà sempre di più da loro, formando un’alleanza tutta sua. Ma più che collezionare successi, Ciro Di Marzio durante la sua carriera malavitosa dovrà più volte far conto solo su se stesso, soprattutto dopo la morte della famiglia che si era appena creato, una famiglia intera che sacrificherà alla malavita: Deborah, sua moglie, la ucciderà strangolandola a seguito di una discussione accesa fra i due, bruciandone poi il corpo, mentre la figlia Maria Rita verrà uccisa in un agguato che aveva questa piccola ed indifesa bambina, ignara di cosa fosse l’ambiente camorristico, come obiettivo principale. La sua ferocia ed il suo dolore lo trasformeranno in una macchina da guerra, rendendo “l’immortale” l’uomo più temuto di tutta Napoli. Roberto Saviano, l’ideatore dell’intera serie, per la creazione di questa macchina da guerra trasse ispirazione dal boss Gennaro Marino, ucciso il 23 Agosto 2012 sul lungomare di Terracina, ma per la creazione dell’intera serie sono state fondamentali per lui le sue stesse inchieste giornalistiche che lo avevano sempre di più avvicinato in questo mondo invalicabile, fatto di traffici di armi, droga e di scambi internazionali che hanno portato la Camorra a possedere imperi economici incalcolabili. A creare questo impero sono stati i suoi soldati, pronti a dare la vita pur di assaporare quell’impero tanto promesso dai loro capi. D’altronde non è nuova questa tattica della promessa, basti pensare al ruolo che ebbe la Camorra per la ricostruzione dei territori distrutti durante il terremoto dell’Irpinia. Forse anche Ciro Di Marzio era attratto da queste promesse e voleva assaporare anche solo un goccio di quella gloria, o forse il suo destino, come quello di tanti altri bambini nati nell’ambiente malavitoso, era già scritto. Dove le istituzioni quanto le prosperità economiche di tali famiglie non esistono, ci penseranno i clan per loro, arruolando piccoli soldati pronti a destreggiare qualsiasi tipo di arma come solo un militare saprebbe fare.

Fotografia della reporter di mafia Letizia Battaglia, fonte: inchiostro.unipv.it

DOVE IL DEGRADO NON CONOSCE LIMITI

La visione dei teorici del conflitto sulla devianza e sulle sue varie sfaccettature è stata estesa sulla base delle disuguaglianze razziali, sessuali, di genere, legate all’età e, soprattutto, ai luoghi sociali. Secondo il punto di vista dei teorici del conflitto, la disuguaglianza diviene un elemento fondamentale che fa sì che almeno alcuni degli individui con meno probabilità di eccellere nella società intraprendono atti devianti e criminali, poiché hanno a disposizione pochi modi se non nessuno per avere successo nella vita. Sostengono inoltre che è a causa delle leggi create dalla società che le azioni dei non abbienti divengono oggetto di notifiche e sanzioni e che probabilmente non sarebbero nemmeno commesse se non fosse per queste leggi che limitano le loro possibilità di esordire. Per i teorici, una persona sceglie la devianza perché è un mezzo razionale per il raggiungimento di un certo obiettivo desiderato. Ad esempio, i membri di un clan malavitoso aderiscono al clan per la protezione percepita che viene offerta, nonché per l’accesso ad un mondo in cui il membro può ottenere un riconoscimento oltre che un appoggio a livello economico. Gli etnometodologi sono invece interessati ai modi in cui le persone commettono tali devianze, cioè i comportamenti quotidiani che adottano che producono devianza. Nell’ambito della devianza, un certo numero di etichette sono simboli negativi particolarmente potenti: assassino, criminale, mafioso e così via. Dal punto di vista della teoria dell’etichettamento, un deviante è qualcuno a cui un’etichetta deviante è stata applicata con successo e rimuovere tale etichetta sarà di fatto impossibile in quanto, partendo già dall’analisi della gerarchia delle famiglie appartenenti alla mafia, notiamo una gerarchia unica, in cui oltre ad avere l’etichetta del malavitoso, possiedono anche quella della famiglia di appartenenza, oltre a soprannomi che fanno riferimento alle loro caratteristice estetiche. Basti pensare allo stesso Toto Riina, soprannominato “U’ curtu” a causa della sua bassa statura. Per la teoria dell’etichettamento è interessante il modo in cui la persona, che è etichettata come deviante, viene influenzata dall’etichetta e come reagisce ad averla, in quanto anche in un ambiente segnato dalla mafia il malavitoso ne trae un motivo di vanto, e per alcuni queste etichette sono un onore, come l’ex boss di Ottaviano Raffaele Cutolo detto “O’ Professore”, etichettato così in quanto l’unico capace di saper leggere e scrivere:

“Dicono che ho organizzato la nuova Camorra. Se fare del bene, aiutare i deboli, far rispettare i più elementari valori e diritti umani che vengono quotidianamente calpestati dai potenti e ricchi e se riscattare la dignità di un popolo e desiderare interamente un senso vero di giustizia, rischiando la propria vita per tutto questo, per la società vuol dire camorra, allora ben mi sta quest’ennesima etichetta.”

TESTIMONIANZE DI SOPRAVVISSUTI

La cultura mafiosa, che si insidia nel modo di pensare, essere e agire di chi vive in quegli ambienti sin dai primi anni di vita, per molti bambini è stata una condanna a morte ancor prima che avvenisse la loro nascita. In Calabria, dove l’Ndragheta ha fatto e continua a fare da padrona, la mentalità criminale viene trasmessa ai figli dell’ndrangheta addirittura con delle ninne nanne. La più nota, la “ninna nanna malandrineddu”, racconta al piccolo la morte ingiusta del padre e la sua futura missione di vendicarlo una volta diventato adulto. L’educazione mafiosa viene tramandata attraverso rituali che legano il bambino all’organizzazione per tutta la vita, rituali anche violenti e traumatici che segneranno per sempre la psiche del bambino che in futuro vestirà i panni del soldato per difendere l’intera famiglia. Per far fronte a questo grave problema, il tribunale minorile di Reggio Calabria dal 2012 ha istituito un programma di allontanamento dei minori dal nucleo familiare mafioso. Il programma si chiama “Liberi di scegliere” e si rivolge ai figli dell’ndrangheta per aiutarli a uscire da questa loro visione distorta della realtà a cui sono stati educati fin da piccoli. Fino a oggi solo un figlio di mafiosi, sugli ottanta seguiti, è tornato a fare parte dell’organizzazione, dichiarandosi comunque pentito della scelta di rientrare nel mondo criminale. Secondo l’Università di Pavia, emerge dai dati che il 90–95% delle madri non si stia più opponendo, fatto impensabile soltanto un paio di anni fa. Non basterebbero le mille inchieste del giornalista Roberto Saviano tratte dal suo libro “Gomorra”, pubblicato nel 2006, da cui poi è stata estratta la serie. E non basterbbero nemmeno le immagini tratte dal film “L’immortale” diretto da Marco D’Amore, attore che interpreta Ciro Di Marzio nella serie “Gomorra”, in cui viene descritta la vita del personaggio fatta di abbandoni, solitudine e giochi sotto le vele di Scampia. La mafia ha la capacità di nascondersi anche dove è più evidente, e dove le famiglie hanno fallito nel tenere lontani i figli dalla strada della corruzione, dell’omertà e della violenza, giudici come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone di cui questo anno ricorrono i 30 dal loro decesso, e Nicola Gratteri, pronto ad afferrare la staffetta per continuare il lavoro di Borsellino e Falcone e che tonnellate di tritolo ha interrotto troppo presto.

 

 

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