Per ascoltare della musica, nel 2019, non occorre necessariamente andarsela a cercare, fa parte del paesaggio; al supermercato, negli uffici, mentre aspettiamo dal medico e persino mentre il dentista ci ottura quel dente che abbiamo ignorato più a lungo possibile. Una canzone ti entra in testa e ci si ritrova a canticchiarla lavando i piatti; ma di cosa sono fatti questi testi?
Alcuni esempi
A partire da due pezzi di musica pop italiana cercheremo di focalizzare l’attenzione sul cambiamento linguistico in atto. Prendiamo per prima la hit dell’anno scorso La musica non c’è, che ha proiettato l’autore, Coez, in vetta alle classifiche per settimane, la terza strofa si presenta così:
E in fondo tutto quello che volevo lo volevo con te
E sembra stupido ma ci credevo, e ci credevi anche te
E non è facile trovarsi mai, oh mai, oh mai
E tu mi dici è meglio se ora vai, ormai è tardi.
Notate qualcosa di strano? Oltre la ripetizione ad inizio verso, un’anafora, figura piuttosto comune nei testi per musica, troviamo un sintagma che, scritto in un tema scolastico, sarebbe stato barrato in rosso o quanto meno sottolineato due volte; ci credevi anche te. Ad un primo ascolto, ci accorgiamo sia sbagliato, ci verrebbe da sostituire quel pronome personale oggetto con uno soggetto, concordarlo con il predicato, ma al secondo ascolto ci ritroviamo a cantarlo esattamente così com’è. Del resto non è l’unico punto della canzone a non soddisfare la norma grammaticale standard, lo stesso ritornello Sei bella che la musica non c’è grammaticalmente non significa nulla. Per cosa sta quel che? Possiamo pensare Coez non sappia la grammatica o che per ragioni di prosodia abbia risolto un problema di rime in questo modo. Oppure possiamo cambiare canzone.
Jovanotti in Chiaro di luna, una delle più apprezzate canzoni d’amore italiane degli ultimi tempi, manifesta comportamenti simili a quelli sopra descritti. Sono presenti forme come non lo so dove vanno a finire le ore oppure nello stesso ritornello abbracciato con te al chiaro di luna. Forme quanto meno inusuali nello scritto, accettabili solo nel parlato, che per definizione presenta un gradi di attenzione minore nella formulazione e tende a semplificare le strutture. Questi sono però testi scritti. E non da bambini delle elementari, allora come spiegarci queste stranezze?
Un po’ di sociolinguistica
Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio caso di italiano neostandard; nozione proposta da Gaetano Berruto che definisce le forme che, prima relegate nell’area delle forme colloquiali, si diffondono e vengono accettate progressivamente nella lingua nazionale (standard). Rappresentano dunque il futuro della lingua ed appaiono continuamente nell’uso dei media, sia tradizionali come televisione, comunicazioni giornalistiche, sia i nuovi, compresi i social network (ed il Web in generale, ipertesto per eccellenza). Fare uso di queste forme non significa dunque commettere un errore, ma aumentare la loro incidenza sulla produzione di testi scritti e non e facilitarne l’ingresso nella varietà nazionale. Alcuni tratti riconducibili al neostandard sono; a livello morfologico pronomi personali soggetto lui, lei, loro, l’estensione di te in funzione di soggetto (ci credevi anche te; Coez), gli usato come dativo sia maschile sia femminile anche come plurale. Si utilizzano inoltre poche congiunzioni, si semplifica il paradigma verbale (eliminati passato remoto e futuro). Il congiuntivo viene sostituito dall’indicativo (non lo so dove vanno a finire le ore; Jovanotti). Vengono diffusi il ci attualizzante ed il che polivalente, anche in caso di relativa debole (sei bella che la musica non c’è; Coez).
La lingua come la conosciamo è frutto di un intenso lavoro di adattamento a partire dalla varietà tosco-fiorentina, ma per la prima volta abbiamo l’opportunità di cambiarne le regole. E’ una grande responsabilità, non facciamoci prendere la mano.