Serie TV: le ameremmo ugualmente se finissero sempre bene? La risposta nelle filosofie del tragico

È una bellezza tutta particolare quella che si prova di fronte alla fascino delle tragedie che ci vengono raccontate in film, libri e serie tv: l’elemento negativo, presente in tutte le filosofie del tragico, è sempre centrale per la realizzazione di una bella storia. Ma si tratta di un equilibrio molto sottile.

Quante volte ci siamo sentiti dire che c’era spazio anche per Jack sulla zattera con Rose? Eppure, se si fossero salvati entrambi e ci fosse stato un lieto fine, probabilmente non avremmo apprezzato il Titanic allo stesso modo. D’altronde gli episodi più amati delle nostre serie TV sono quelli in cui non manca l’elemento tragico: le nozze rosse in Game of Thrones, Hank ammazzato fra le lacrime di Walter White in Breaking Bad e l’esplosione che uccide Gus Fring, il finale dolce amaro di How I met your mother e tanti altri ancora. Ma da cosa è dato il piacere che proviamo di fronte a scene tanto tragiche? Ed è davvero necessario portare il negativo fino in fondo?

La necessità del negativo nella rappresentazione

Mendelssohn, filosofo tedesco del Settecento, direbbe che un’opera d’arte veramente degna di questo nome deve sempre essere inquinata da un elemento negativo, perché una bellezza troppo pura ci nausea e rischia di diventare stucchevole. È necessario riprodurre una bellezza mista perché la sensazione che proviamo deve essere mista, deve saper creare un contrasto di emozioni nello spettatore; perché è in questo conflitto che risiede la bellezza. Nietzsche dirà anzi che se si perde questo elemento opposto all’armonia apollinea viene meno tutto l’impianto tragico, ma non solo: viene meno la verità della vita, che è lungi dall’essere solo armonia e perfezione. In termini già hegeliani, l’elemento negativo è di per sé necessario, perché è solo in virtù di questo che si può giungere a completezza. ”Lo spirito guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé stesso nell’assoluta disperazione”, dirà infatti Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto. Una tesi di per sé teoretica, e che però per il filosofo tedesco si applica a tutta l’esperienza umana, non solo a quella della conoscenza. Il negativo è necessario ai fini del percorso, anzi è necessario perché vi sia in primo luogo un percorso, una crescita, un’evoluzione, tanto nella nostra vita quanto nelle storie raccontate dalle nostre più amate serie. Rimanda ad un profondo conflitto che riguarda tutta l’umanità e ad una profonda lacerazione, da sempre connaturata all’individuo; ma è solo attraverso questa lacerazione che si può raggiungere la sintesi, che è consapevolezza e completezza dell’esperienza. E questo lo possiamo evincere dalla crescita dei personaggi di – quasi – tutte le nostre serie.

Il negativo nel finale di serie

Ma è davvero essenziale che l’elemento negativo sia presente anche nel finale di una serie? Essenziale forse no. Ma quel che certo è che, nel bene e nel male, se non si tratta di un finale onesto rimarremo sicuramente delusi; e siccome sappiamo che la vita quasi mai ci regala l’happy ending, quello che apprezzeremo di un finale di serie sarà la sua onestà verso la verità della vita, la sua fedeltà al reale, anche se questo significa chiudere con un altro negativo. Quel che cambia, però, è che questa volta siamo certi che i nostri personaggi saranno in grado di affrontarlo, come li abbiamo visti affrontare ogni negativo con cui si sono dovuti scontrare nel corso della serie. Senza dimenticare che come la pace esiste solo in relazione alla guerra, così anche anche il piacere esiste solo in relazione al dolore.

Il giusto equilibrio tragico

Ma come mai di fronte a scene di una certa tragicità siamo comunque portati a provare un certo piacere? Il grosso dell’estetica settecentesca concorda nell’affermare che per quanto il contenuto di un’opera possa essere tragico, a darci piacere è la forma con cui questo viene rappresentato. Basti pensare ad alcune scenografie magistrali di Game of Thrones, per esempio, che anche e soprattutto quando ci mostrano battaglie, morti e distruzioni sanno essere di un’epicità imprescindibile. Quanto meglio viene rappresentata una tragedia tanto maggiore è il piacere che proviamo, a prescindere dalla negatività del contenuto, fintanto che dietro c’è qualcuno che ha saputo rappresentare la realtà del sentire umano nella sua più intima essenza. Un contenuto negativo non deve perciò corrispondere ad una brutta forma di rappresentazione, anzi: il contenuto negativo è parte della vita, ma una sua rappresentazione ben riuscita ce lo rende anche esperibile – e poi catartico. È anche quel che dirà Hume nel suo saggio sulla tragedia: proviamo piacere di fronte alla bellezza di una rappresentazione, che è rappresentazione di una tragicità tutta nostra e profondamente umana.

Valgono le stesse regole anche nella vita reale?

Che il negativo faccia parte anche della nostra vita e che cresciamo grazie ad esso è scontato. Ma ci capita mai di provare un piacere simile a quello prima descritto di fronte alla nostra personale tragedia? Nel romanzo 2666 Roberto Bolano, scrittore e poeta cileno, nel raccontare gli amori complicati di una delle sue protagoniste dice che si prova uno strano piacere nell’ ”autocontemplazione delle proprie disgrazie”. Ma anche il termine contemplazione implica che si prenda una certa distanza dai fatti. D’altronde è, riletta in altri termini, l’immagine già sofoclea con cui Lucrezio apre il secondo libro del De rerum natura, quella di un uomo che stando al riparo trae piacere nell’osservare la tempesta che si abbatte su altri. Che sia una presa di distanza dalle proprie disgrazie, da quelle di altri o da quelle che ci vengono rappresentate in arte, una distanza sembra perciò essere necessaria. Solo così si può riscoprire, anche nel tragico, la sua intima bellezza.

                                                                                                                               Noemi Eva Maria Filoni

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