Riflettiamo sull’importanza di allontanare tutto ciò che è inutile all’uomo per la ricerca e il raggiungimento della virtù.
Attraverso le opere filosofiche di Seneca e la canzone “Quello che non ho” di De André scopriamo cosa è necessario all’animo umano e cosa invece non lo è, e perché sentiamo il bisogno di possedere ciò che non abbiamo.
LA FILOSOFIA DI SENECA
La filosofia di Seneca è una realtà complessa; è tuttavia possibile riunire in uno sguardo d’insieme le linee principali della sua dottrina e identificarne le componenti essenziali. La filosofia senecana è parte attiva nella lotta storica contro le passioni. Predicando l’apatia, ovvero l’assenza di passioni che possono turbare l’animo del sapiente, Seneca prende in esame i sintomi manifestati da chi le passioni non riesce a dominarle e vive un rapporto conflittuale con la realtà a causa delle proprie brame smisurate. L’ira è la prova che le passioni sono una malattia dell’anima: abbandonandosi ad essa l’uomo perde infatti di vista la ragione arrivando a commettere atti di inaudita ferocia. Particolarmente pericolose sono anche l’avidità, che non permette di cogliere la propria felicità, e l’amore per il lusso, che porta alla mancanza di controllo su qualsiasi tipo di bene materiale, anche naturale. Per quanto riguarda il discorso moralistico senecano, anche in quelle che potrebbero apparire come le sue più audaci aperture sulla società e sulla storia (come per esempio quando rivendica la dignità umana degli schiavi), esso non ha un reale significato attivo di concreto intervento sulla realtà. Il “Logos stoico”, che attraversa il cosmo e gli uomini, è un forte elemento di coesione, e che agli occhi di Seneca motiva il valore universale della filantropia e spinge a cancellare le differenze sociali, economiche e giuridiche, si chiude però in se stesso nella dimensione riparata della riflessione e dell’equilibrio individuale. L’idea dell’evasione, di una libertà spirituale che il filosofo deve sapersi conquistare per poi difenderla è forse la componente fondamentale del pensiero senecano, alla quale si collega strettamente la concezione della filosofia come continua ricerca, come scavo ed indagine nell’animo.
IL RAGGIUNGIMENTO DELLA VIRTÙ
Seneca è autore di molte opere filosofiche, che trattano tutte argomenti morali e fanno di lui uno tra i più celebrati e influenti moralisti della letteratura europea. Nei “Dialoghi” e nelle altre opere filosofiche cui attingeranno generazioni di pensatori antichi e moderni si può dire che Seneca affronti la gran parte degli argomenti che sono al centro della filosofia morale. Nel “De Brevitate vitae”, dedicato a Paolino, il filosofo gli raccomanda, una volta conclusi i compiti pubblici a cui si dedica con diligenza, di dedicarsi allo studio e alla ricerca della saggezza. Seneca svolge una drammatica requisitoria contro le dannose vanità dell’essere umano e lo spreco del tempo in un’infinità di occupazioni futili. La brevità della vita e l’incessante procedere del tempo, dovrebbero essere il miglior motivo per dedicarsi alla filosofia e utilizzare quindi l’esistenza a vantaggio di se stesso e degli altri. Soltanto la saggezza permette secondo il filosofo di reimpadronirsi della vita: solo attraverso una concezione etica del tempo che faccia da argine all’irrefrenabile “fuga temporum”, l’exsistere, stabilito dalla provvidenza, può mutarsi in vivere; vera e propria conquista dell’individuo. Il “De vita beata” è dedicato al fratello Novato. La tesi centrale, di chiara impronta stoica, è l’esaltazione della virtù come valore fondamentale dell’esistenza e come chiave della felicità: vita felice è quella dedita all’esercizio della virtù, mentre il piacere non costituendo autosufficienza e libertà interiore non può procurare la vera felicità. Se dunque, in accordo allo stoicismo, per raggiungere la felicità bisogna vivere “secondo natura”, e che i piaceri fisici, al pari dei beni materiali non possono essere considerati il fine dell’esistenza, comunque questo non vuol dire che il saggio debba disprezzarli.
“QUELLO CHE NON HO”
“Quello che non ho” è una brano di Fabrizio De André, contenuto nell’album “L’Indiano”. Il brano parla delle differenze tra i popoli autoctoni e quelli che sarebbero considerati come gli “oppressori”; tali differenze sarebbero proprio le cose che gli oppressi, a differenza degli oppressori, non possiedono. Il testo è una sorta di provocatoria invettiva contro il consumismo dell’uomo moderno e occidentale che ha e vuole tutto, per dare voce, a chi non ha bisogno di finte ed inutili richieste. Così come Seneca, dunque Faber ci invita a riflettere sull’importanza di allontanare tutte le cose futili ed inutili con cui noi cerchiamo di riempire la nostra vita e con cui sprechiamo il nostro tempo. Tramite una continua metafora tra il popolo Indiano e quello sardo, De André elenca tutto ciò di cui non si avrebbe davvero bisogno, schierandosi apertamente contro quella moda dell’eccesso dettata dall’uomo occidentale che rende un consumatore irrazionale, che non riesce più a porsi quelle domande né a darsi risposte riguardanti il proprio ruolo e il proprio posto nel mondo. Il verso chiave della canzone dice:
“Quello che non ho è quello che non mi manca”
Con queste parole De Andrè afferma che tutto ciò che non ci appartiene non dovrebbe rappresentare per noi una mancanza, un bisogno, o comunque qualcosa che vogliamo ottenere. Ci porta ad interrogarci sulla natura dei nostri desideri, e a chiederci come, paradossalmente, possiamo fare in modo che qualcosa che non possediamo non ci manchi pur sentendone il desiderio o, addirittura, l’esigenza. La nostra mente infatti ci porta ad avvertire come una vera e propria mancanza ciò che vorremmo avere e che non abbiamo. Tuttavia forse anche De André mostra implicitamente nel testo un attaccamento a ciò che non ha nei versi in cui dice “Quello che non ho sei tu dalla mia parte”, lasciando chiaramente intendere che spesso è difficile non sentire il bisogno di avere nella nostra vita qualcosa che non abbiamo ma che per noi costituisce un desiderio.
Iniziare la giornata leggendo questa saggezza mi solleva l’anima e mi apre la mente!
Grazie!
Articolo bello, ben scritto e ricco di riflessioni. Modificherei solo nel titolo, la seconda parte in ” Non desiderare ciò che non ti serve a vivere meglio” perché altrimenti sembra quasi un invito ad arrendersi di fronte ad obiettivi grandi ed impegnativi.
I desideri spesso si avvolgono nel PROFONDO dell’animo umano, un formicaio di pensieri che abitano la nostra mente e a volte violentano la nostra stessa natura rendendo incontrollabile a riconoscere i nostri limiti
Leggere il “De Ira” di Seneca è meraviglioso. Attuale e scritto duemila anni orsono.
Con in consumismo dei nostri tempi è molto difficile non desiderare quello che non si ha.
C’è una competizione irrefrenabile soprattutto nei giovani con alle spalle i genitori,anche noi complici.
Bello l’articolo
Interessante confronto, oltretutto potrebbe essere un’impostazione per attualizzare il metodo di insegnamento,trovando punti di contatto tra artisti seguiti dai giovani e grandi pensatori
E pensare che potremo essere molto più sereni semplicemente desiderando meno! Stà a tutti noi modificare la società dei desideri in quella della ragione.
Grazie
Non sono d’accordo sull’ultima: “quello che non ho sei tu dalla mia parte” potrebbe, più in linea con lo stile e vita dell’Autore, indicare “la ricerca di consenso”. Come dire, non cerco sostenitori, sono fuori dai sistemi… Un po’ richiama la figura del profeta, che non ha quasi mai nessuno dalla propria parte, e non parla per suscitare consensi! Condizione, il non averti dalla mia parte, stare fuori, in disparte, isolato, consustanziale alla critica.
Grazie, bell’articolo fra tante baggianate! Pier Luigi