Salvini vs Gemitaiz è solo l’ultimo prodotto di una società asservita allo show business

Pensavano volessi fare politica/ santo cielo se la situazione è critica.” Con questi due versi inizia “Rollin” l’ultima canzone di Gemitaiz, rapper romano classe ’88, che risponde al nome di Davide de Luca. Il rapper si sta riferendo agli scontri avvenuti nei mesi scorsi con il ministro degli interni, Matteo Salvini, di cui Gemitaiz aveva criticato la politica antimigranti, definendolo fascista e razzista. Sembrava acqua passata, e del resto Gemitaiz con questi due versi sembrava aver messo una pietra sopra all’idea di fare contestazione e opposizione al ministro. Tuttavia Domenica scorsa, il 25 Novembre, Matteo Salvini pubblica un instagram story per pubblicizzare la sua manifestazione, che si terrà l’8 Dicembre a piazza del popolo: in primo piano c’è il faccione di Gemitaiz e con su scritto “ L’8 Dicembre lui non ci sarà”. Gemitaiz risponderà con un’altra instagram story, dove prendendo in giro Salvini gli ricorda di avere più followers di lui.

Andando oltre al mero fatto di cronaca, che di per sé fa anche sorridere (ma forse non dovrebbe), cerchiamo di analizzare il rapporto che si è instaurato in questi primi mesi di governo tra Salvini e la musica: Oltre a Gemitaiz, il ministro ha infatti avuto “discussioni” anche con Salmo, ed è stato aggredito quando una volta ha pubblicato su Facebook una foto con una frase del “Suonatore Jones”.

 Guy Debord, scrisse nel 1967 un testo fondamentale: la società dello spettacolo. Questo libro ci aiuterà a comprendere il rapporto appunto tra politica e  musica, spettacolo. La domanda che ci dobbiamo porre è in realtà molto semplice: fino a che punto la politica deve essere spettacolo, e quale è il limite entro il quale si può ancora parlare di politica e non di spettacolarizzazione della stessa?

Abbiamo detto che il rapporto politica-musica nel nostro paese è da sempre stato complesso: i nostri grandi cantautori sono sempre stati schierati politicamente, ma sono stati comunque amati da tutti. Il fatto è che nessuna forza politica se ne è mai appropriata, ne li ha criticati in quanto oppositori politici: politica e musica viaggiavano su binari paralleli. Sentiamo cosa ha da dirci Debord:“L’intera vita della società, in cui dominano le moderne forme di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli.” La politica non sembra essere immune da ciò: andate a vedere le storie in evidenza di Salvini, quelle in cui ci fa vedere chi non ci sarà l’8 dicembre. Ci sono Gemitaiz, Salmo, e Asia Argento, rappresentanti del mondo dello spettacolo. Oltre a loro ci sono però anche Renzi, Juncker, Boldrini e Saviano.

Non fa strano che il presidente della commissione europea, un ex presidente del consiglio, una ex presidentessa della camera e uno scrittore che ha denunciato le mafie (un po’ il lavoro che dovrebbe fare il ministro degli interni) siano sullo stesso piano di Gemitaiz e Salmo? Probabilmente la politica, non solo è entrata nel mondo dello spettacolo, ma il mondo dello spettacolo è entrato nella politica o meglio, la politica è diventata fondamentalmente spettacolo.

Cosa significa però questo? La parola “spettacolo” deriva dal latino “spectare”, cioè “guardare”. Qui si apre un problema enorme: la politica, da quando è, è fondamentalmente azione, attività. La politica è qualcosa di completamente artificiale, attraverso la quale l’uomo mette ordine basandosi sul conflitto, direbbe Kant.

L’azione, l’essere-in-azione, è probabilmente la categoria fondamentale e, perché no, trascendentale in senso kantiano della politica: è la sua condizione di possibilità.

Lo “spectaculum, il “guardabile”, presuppone passività: io guardo qualcuno che agisce, ma nella misura in cui io sono spettatore evidentemente non sono attore.

La crisi della politica è in questo senso interpretabile come la crisi della nostra facoltà rappresentatrice. Tendiamo a un sapere non più mediato, riflesso e riflessivo, ma immediato. Il pensiero immediato è il mito: il contrario del logos, che si illude di arrivare immediatamente alla verità, i nostri tempi, oramai altro che tempi moderni o postmoderni, con buona pace di Sartre e Lyotard, sembrano essere l’epoca del mito, il cui erede diretto è lo spettacolo: soluzioni facili, a problemi difficili. Il mito del “sogno americano”, il mito del “popolo”, il mito dell’ “identità”. La spettacolarizzazione della politica dà a quest’ultima carta bianca perché da un lato sembra diventare cosa da poco, un episodio televisivo e poco altro, dall’altro la nostra vita sociale sarà irrimediabilmente infettata da una sindrome spettatoriale. I media e l’uso dei social rischiano di trasformare le persone da attori della società civile a spettatori che si limitano a fare il tifo, senza poter scendere in campo per cambiare la partita, a meno che non vogliano essere arrestati dalla polizia

 

 

Giuseppe De Ruvo

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