Ricorrenze ed eventi ci fanno di nuovo riflettere sul terrorismo. Vediamo come funziona la mente di un terrorista.

Nel 50 anniversario della strage di Monaco compiuta da terroristi palestinesi, a Kabul l’ambasciata russa subisce un attacco. Spesso si cerca di capire ciò che sta dietro un gruppo terroristico, ma troppo poco si riflette su come una persona diventi un terrorista.
Non è tutto terrorismo
Iniziamo col dire che il terrorismo, per essere definito tale, deve avere delle solide basi ideologiche. Se pensiamo, ad esempio, ad attentati con fini economici, non stiamo parlando di terrorismo.
Non sempre però è così fracile distinguere il terrorismo da altri moventi: un esempio può essere l’attuale guerra in Ucraina, sicuramente basata su motivi ideologici (vedi Aleksander Dugin), ma che cela anche motivi economici e politici.
Questo chiarimento è molto importante, in quanto la psicologia di uno di questi “non-terroristi” è volta semplicemente all’ottenimento di più soldi o potere, mentre la psicologia di un soggetto che agisce per un’ideologia è molto più complessa.
Il bisogno degli altri
Considerando il lato più sociale, possiamo subito fare riferimento ad uno dei bisogni più importanti del’individuo: il bisogno di affiliazione.
L’uomo è naturalmente portato alla ricerca di un gruppo, ossia di persone acccomunate dalle stesse passioni, interessi, o, soprattutto in questo caso, idee. Individui che si sentono quindi “scartati” da altri ambiti o dalla società stessa potrebbe trovare conforto in questi gruppi. Questo spiega anche perché la regolare frequentazione delle moschee è inversamente proporzionale all’arruolamento nell’ISIS.
In un gruppo si viene facilmente e rapidamente a creare un “noi”, che però va di pari passo con la creazione di un “loro”. Questo porta ad una vera e propria distinzione tra persone in-group (facenti parte del gruppo) e out-group (non facenti parte del gruppo), anche a livello cerebrale. Alcune ricerhe hanno infatti dimostrato come alla vista del volto di una persona non appartenente ad un determinato gruppo corrispondesse una maggiore attivazione dell’amigdala, regione del cervello che riesce a metterci in uno stato di allerta.
Empatia e disumanizzazione
Il terrorismo però comprende spesso anche una parte violenta, che porta spesso i propri membri a commettere omicidi ed attentati. Ciò può essere spiegato attraverso due pricipali fattori: l’empatia e la disumanizzazione, che si influenzano.
L’empatia (ora ci stiamo riferendo anche a quella emotiva, vedi qui) è la capacità di capire e provare i sentimenti, le emozioni altrui, non essendo per questo coinvolti direttamente. Questa può avere un impatto negativo o positivo.
Se proviamo empatia nei confronti di un altro gruppo, molto probabilmente saremo meno portati a fare del male ai suoi membri, ma, al contrario, proveremo ad aiutarli e supportarli. Se invece l’empatia verrà provata per i membri del nostro gruppo (che, nel caso del terrorismo, hanno un atteggiamento di odio per una determinata società o cultura), sarà molto facile acquisire il loro stesso atteggiamento.
La disumanizzazione è un altro elemento chiave che ci fa capire la natura di un terrorista.
Nelle pagine più buie della nostra storia questo processo, che consiste nel far sì che alcuni gruppi o parti della società non vengano più considerate umane, ha avuto un ruolo centrale: pensiamo soltanto agli ebrei, classificati dai nazisti come bestie, ma anche ai capitalisti, chiamati “maiali” dai comunisti. La lista è lunga.
Al giorno d’oggi dobbiamo affrontare il mondo del 21esimo secolo con un cervello dell’età della pietra, ed agire con cautela, cercando di attivare la parte più razionale della nostra mente sarà fondamentale per lo sviluppo di una comunità globale in pace ed armonia.