Nel primo Novecento, mentre cinema, radio e televisione modellano nuove consuetudini sociali, Mussolini crea il Teatro nazionale.
Nel corso della dittatura fascista (1921-1945), il Teatro italiano ribaltò il suo assetto strutturale rispetto a quello del passato: vi fu una forte dipendenza dai sussidi governativi, un legame tra iniziativa privata e intervento pubblico, ed infine una centralizzazione istituzionale politica.
Il teatro di Mussolini
Il fascismo risollevò il Teatro italiano da una “prima crisi”, soffermandosi prettamente sull’organizzazione e su una migliore gestione economica. Questo sino a quando Mussolini non riconobbe la forza propagandistica e educativa nella forma teatrale e decise, quindi, di sfruttarla al meglio, per la propria politica, creando una sorta di sottogenere teatrale: il “teatro di massa”.
Gli spettacoli del teatro fascista, controllati dalla Censura, erano talmente importanti per il partito che furono “adottate” delle strutture apposite per le loro rappresentazioni, come l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA, Teatro greco di Siracusa) e i cosiddetti Carri di Tespi.
I Carri di Tespi erano dei teatri mobili che le compagnie teatrali nomadi si servivano per portare in giro i propri spettacoli: erano letteralmente dei padiglioni che venivano smontati e rimontanti di piazza in piazza per le città italiane, e l’allestimento durava circa 40 o 50 giorni. Mussolini si servì di questo modello nomade per creare il teatro itinerante all’aperto a partire dal 1929.
Politiche per un’idea di Teatro nazionale
La vera politica di intervento, che avrebbe risollevato il Teatro dalla crisi delle compagnie impresariali e capocomicali, riguardava proprio la riforma organizzativa: la creazione di teatri d’arte per consolidare l’idea di un grande “Teatro nazionale”, come istituzione simbolo dell’arte teatrale italiana.
I teatri d’arte avrebbero portato in scena spettacoli che abbracciavano le Avanguardie europee ed artisti e intellettuali interessati a nuovi metodi di recitazione. I più importanti al riguardo furono il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia (di stampo futurista) e il Teatro d’Arte, diretto da Pirandello, divenuto più tardi una società anonima per sottrarsi agli intenti fascisti.
Alcuni interventi politici che hanno alimentato una nuova concezione di “Teatro nazionale” furono: l’istituzione del Sabato teatrale dal 1936 nei teatri delle città con ingresso agli spettacoli a prezzi convenienti; la ristrutturazione nel 1935 dell’Accademia di Santa Cecilia, rinominata Accademia Nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, dopo la morte del fondatore, e che prevedeva corsi performativi triennali per attori e registi.
L’idea organizzativa
Dunque, il periodo fascista, per quanti cruenti siano stati i fatti storici accaduti, inizialmente pose le basi per un’idea organizzativa di “Teatro nazionale”, non più chiusa all’interno delle compagnie impresariali di fine Ottocento, ma gestita e finanziata apertamente dallo Stato.
Infine, va sottolineato che questo aspetto organizzativo influenzò in primis l’interno del sistema teatrale, colpendo abitudini e tecniche degli stessi attori: la divisione in ruoli, la formazione del repertorio, la chiusura economica del mondo teatrale, l’egemonia dei figli d’arte.