Immaginatevi single e pronti a rimettervi in gioco; decidete di lanciarvi nel mondo dei siti d’incontri, delle loving app: Tinder, Meetic, Badoo, Lovoo…
Create il vostro profilo, prestando particolare cura ai vostri interessi, cosa vi piace fare: cercate di rendervi interessanti, positivi e appetibili.
E se invece si volesse mostrare il proprio “lato oscuro“? Quella parte di sé che si tiene nascosta, che non si mostra agli altri se non in seguito ad una certa confidenza, quelle opinioni e pensieri grumpy, da “odiatore“?
A voi Hater, l’app dove l’odio unisce!
CHI ODIA IN COMPAGNIA
Hater è un’app di incontri disponibile dal 2017 che mette in contatto chi odia le stesse cose; la filosofia che anima il progetto, nelle parole del creatore Brendan Alper, è ben esplicitata d’altronde dal suo slogan: “meet someone who hates the same stuff“, “incontra chi odia le stesse cose”.
In modo molto simile a Tinder (da cui riprende interfaccia e meccanismi), l’utente, una volta creato il proprio profilo, è chiamato ad esprimere una valutazione su una serie di argomenti e tematiche, dalle più frivole (come l’opinione sugli shorts cargo!) ad altre più impegnate (Donald Trump o legalizzazione delle droghe); terminata questa fase, si è messi in contatto con i profili compatibili.
Per esprimere il proprio parere sull’argomento, si utilizzano le emoji: like o dislike, amore e ovviamente odio!
L’UNIONE NASCE DALL’ODIO
Nel panorama delle lovin app e più in generale dei social, Hater, con il suo ribaltamento valutativo basato sulle comuni antipatie, può rappresentare davvero una rivoluzione: in un universo dove il matching e l’affinità sono da sempre basate sulla condivisione positiva, l’utilizzo di un sentimento negativo come variabile potenzialmente aggregativa risulta affascinante ed intrigante.
In letteratura sono già presenti indicatori di questo tipo: una ricerca del 2006, condotta dalla University of South Florida, ha dimostrato come un sentimento negativo condiviso, indirizzato verso oggetti o persone, abbia la stessa efficacia nel creare legami di quanta ne abbiano unioni basate su atteggiamenti positivi.
In sostanza, ci piace conoscere persone che siano simili a noi, con cui poter condividere tanto i nostri interessi quanto le nostre antipatie.
IL PARADIGMA DEI GRUPPI MINIMI
La formazione di un gruppo sulla semplice condivisione di preferenze comuni fu indagata nel 1971 dallo psicologo inglese Henri Tajfel, che con il suo paradigma dei gruppi minimi identificò le condizioni minime affinché un soggetto categorizzasse la realtà (e gli altri individui) in gruppi, attivando meccanismi di favoritismo verso il proprio gruppo di appartenenza (in-group) e di discriminazione verso gruppi estranei (out-group).
I soggetti dell’esperimento furono divisi in modo del tutto casuale in due gruppi, sulla base di un’unica preferenza (fittizia ed ininfluente) espressa rispetto a due quadri di due autori diversi, Klee e Kandinskij; i membri di questi due gruppi non si incontrarono mai e non vennero mai a conoscenza degli altri, non valutarono mai significativa l’appartenenza al proprio gruppo e non avrebbero ottenuto alcun vantaggio dall’appartenenza ad un gruppo piuttosto che all’altro: le variabili potenzialmente discriminanti erano insomma praticamente del tutto azzerate.
In una seconda fase, i soggetti, singolarmente, erano chiamati a distribuire una somma di denaro ai membri dei due gruppi, senza avere alcuna informazione se non un codice identificativo (che non portava quindi al soggetto-test nessuna informazione circa l’identità dell’individuo che avrebbe ricevuto il denaro) e il gruppo di appartenenza (Klee o Kandinskij)
Il soggetto-test poteva scegliere una di tre strategie di distribuzione: massima ricompensa comune, attribuendo la massima cifra possibile ai membri di entrambi i gruppi; massima ricompensa all’in-group, attribuendo la massima ricompensa possibile ai membri del proprio gruppo, indipendentemente dalla ricompensa ricevuta dall’out-group; massima discriminazione intergruppi, distribuendo la somma di denaro in modo che si generasse la differenza di ricompensa maggiore tra i due gruppi, a discapito di una somma per l’in-group minore rispetto alle altre due strategie.
Ebbene, nonostante i membri dei due gruppi non si fossero mai visti e non si conoscessero, nonostante non ci fosse tra di essi ostilità o conflitto di interessi di alcun tipo, la strategia più utilizzata fu la terza, che garantiva la maggiore discriminazione tra i due gruppi: un semplice interesse comune, come può essere la banale preferenza per un quadro piuttosto che per un altro, è sufficiente per innescare meccanismi discriminatori e avversi nei confronti di individui appartenenti ad un out-group.
GLI ORIZZONTI
In virtù di ciò, i presupposti sottostanti ad Hater sono positivi ed incoraggianti: introducendo nuove dimensioni attraverso cui è possibile categorizzare l’Altro in un in-group, nonostante siano basate su elementi esperiti negativamente o verso cui si prova un’affezione negativa, permette di allargare il campo della condivisione, favorendo così il fiorire di legami e combattendo fenomeni di discriminazione.
Marco Funaro (majin_fun)