Quando copiare era un lavoro: immergiamoci nello scriptorium di un copista medievale

Come funzionava la copia nel Medioevo? Quanto è stato importante il lavoro dei copisti per la trasmissione dei testi antichi?

AMANUENSI TRA DOLORI E DIAVOLI

Quello del copista è un lavoro intellettuale e manuale, faticoso e a tratti noioso. Scopriamo come lavoravano i copisti medievali partendo dagli strumenti e dai materiali utilizzati per impaginare e trascrivere un testo, analizzando le fasi dell’atto della copia, riflettendo sugli errori, inevitabili e involontari, sulle modifiche intenzionali.

1. Dove operavano gli esperti della copia

Con i termini “copista” o “amanuense” si indica, banalmente, colui che copia un testo, che trascrive un codice; durante tutto l’alto Medioevo i copisti erano quasi esclusivamente monaci, soltanto dopo si aggiunsero i copisti laici.

I copisti medievali lavoravano all’interno del cosiddetto scriptorium, una sorta di laboratorio, ubicato all’interno del monastero, dove si riproducevano modelli di testi, le cui copie erano spesso realizzate su ordinazione.

Ogni copista era solito copiare un determinato manoscritto per intero oppure soltanto una parte dell’opera. C’è chi sostiene che più copisti scrivevano insieme in contemporanea una stessa opera sotto dettatura da parte dell’armarius o bibliothecarius; e chi, invece, sostiene che, al fine di ottenere un maggior numero di copie nel minor tempo possibile, una volta eseguita la prima copia di un modello, venissero fatte copiare contemporaneamente da due diversi copisti il modello e la sua prima copia (massima produttività).

LA CLASSICITÀ SALVATA DAI COPISTI MEDIEVALI – vociantiche

2. Carta e penna

Spesso le miniature dei manoscritti raffigurano scribi nell’atto della copia: in genere, i copisti lavoravano scrivendo sulle ginocchia e soltanto dalla seconda metà del Medioevo poggiandosi su un leggio o più raramente su quella che oggi definiremmo una vera e propria scrivania.

I copisti avevano a loro disposizione un supporto scrittorio costituito da papiro, pergamena o carta; in un primo tempo, si ricorreva al volumen molto difficile da maneggiare poiché costituito da rotoli; successivamente -quando la pergamena sostituì il papiro- si passò al codex, molto più pratico.

Generalmente, il copista scriveva su singoli foli, quelli che oggi chiameremmo “fogli volanti”, fascicolati, assemblati e rilegati solo in un secondo momento. Più foli piegati in due costituiscono un fascicolo, più fascicoli un manoscritto.

Il copista per scrivere utilizzava il calamus, una sorta di cannuccia, tagliata trasversalmente e appuntita, sostituito poi dalla penna d’oca che favoriva un ductus più fine e morbido.

Il Rinascimento nella miniatura del Beato Angelico - Firenze 1903

3. Il copista non era solo

Il copista preparava la mise en page: si iniziava con la squadratura del foglio, si segnavano le colonne, inquadrate tra linee verticali, e le righe, poi si passava alla numerazione. Fino al XIII secolo le pagine non si indicavano con i numeri arabi o romani, come si fa abitualmente oggi, bensì il copista utilizzava delle parole di richiamo, ricopiando le ultime parole del fascicolo n, all’inizio del fascicolo successivo (n+1).

Durante la copia, il copista era solito lasciare degli spazi bianchi, destinati alle miniature che abbellivano i codici più preziosi e ai capilettere. Il rubricatore è colui che inseriva le rubriche e i capilettere, scriveva cioè i titoli (in genere utilizzando un inchiostro diverso, di colore rosso) e le lettere iniziali ornate di un capitolo o di un paragrafo; il miniaturista o miniatore è colui che illustrava il manoscritto, realizzando le miniature. Insomma, il copista si occupava soltanto della copia del testo e segnava in maniera sottile le letterine che poi il rubricatore e il miniatore avrebbero disegnato.

SCRIPTIO

4. Le tappe del lavoro di copiatura

Secondo lo studioso Alphonse Dain (1896-1964) la copia nel Medioevo non avveniva sotto dettatura, se non in casi eccezionali. Egli teorizza, riprendendo anche Desrousseaux, l’esistenza di quattro principali operazioni che costituiscono l’atto della copia:

  1. lettura del modello;
  2. memorizzazione del testo;
  3. dettatura interiore;
  4. copia manuale.

Innanzitutto, il copista leggeva il testo, o meglio la porzione di testo che si accingeva a ricopiare, non parola per parola, ma leggendo e copiando interi versi, interi periodi. Letto il testo, il copista lo teneva a mente, lo memorizzava per breve tempo e lo ripeteva, lo dettava a se stesso, interiormente; infine, con la mano, realizzava la copiatura vera e propria.

Libri Antichi e Rari - Valutazione Libri - Gonnelli Casa d'Aste

5. Errori (involontari) di copia

A ogni fase teorizzata da Dain, sono associati degli errori commessi inavvertitamente dal copista:

  1. errori di lettura: durante la prima fase il copista poteva non aver capito e aver letto una parola al posto di un’altra, forse perché le due parole erano simili, forse perché non riusciva a sciogliere le abbreviazioni.
  2. Errori di memorizzazione: il copista poteva ricordare male quanto aveva letto; poteva aver letto un periodo troppo lungo ed essersi confuso, poteva aver aggiunto o aver omesso una parola.
  3. Errori di dettatura interiore: gli errori della terza fase sono in genere errori di “pronuncia”, il copista, infatti, tendeva a trascrivere il testo adattandolo alla propria lingua, alla lingua che utilizzava correntemente, attualizzando quindi ciò che leggeva, specialmente dal punto di vista fonico.
  4. Errori di copia manuale: errori di penna, cioè di trascrizione, dovuti all’atto di copia manuale e meccanico.

Tra gli errori più comuni in assoluto troviamo: l’omissione di parole brevi come congiunzioni e preposizioni che potevano sfuggire anche all’occhio del copista più allenato; e il saut du même au même (letteralmente: “salto dallo stesso allo stesso”) che consiste nel saltare una porzione di testo, cioè nel tralasciarla, nel non trascriverla poiché tale parte si trova tra due parole uguali o simili e quindi facilmente confondibili.

Errore non è inganno: significato del proverbio

6. “Errori” volontari

Oltre a tutta una serie di errori involontari dovuti a stanchezza, fatica e/o distrazione -molto simili del resto a quelli che facciamo ancora oggi quando trascriviamo un testo (es. salto di una parola, inversione di lettere ecc.)- ci sono quegli errori che il copista commette volontariamente e che vanno a corrompere il testo originale. Spesso il copista, infatti, tendeva a modificare volontariamente i testi, specialmente i testi scritti in volgare; si sentiva autorizzato a intervenire nel testo poiché si credeva che questo fosse perfettibile, ossia migliorabile. Le modifiche volontarie riguardavano essenzialmente i testi volgari e non quelli scritti in greco o in latino, poiché il copista nutriva una forma di rispetto, di reverentia nei confronti degli auctores classici.

Il copista, oltre ad attualizzare la lingua, sostituendo ad esempio termini desueti, poteva apportare diversi tipi di modifiche: aggiunta, sostituzione, rimozione di singole parole oppure di intere parti, completamente rivisitate e rimaneggiate, aggiunte o eliminate. In questo modo, il copista innova intenzionalmente l’originale, restituendo ai posteri un testo diverso da quello pensato e realizzato dall’autore.

Compito del filologo è anche quello di individuare gli errori, volontari e involontari, commessi dai copisti e ricostruire il testo originario, corrispondente alla volontà dell’autore.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.